Il “ribelle contadino” e il rastrellamento del 29 Novembre 1944
Il “proclama Alexander”
Nell’autunno del 1944 la ritirata tedesca si era assestata lungo la cosiddetta “Linea Gotica”, che si estendeva lungo l’Appennino da Rimini fino alla provincia di Massa Carrara. Il 13 novembre venne emanato, sulle frequenze di Radio Londra, il “proclama Alexander”, con il quale il generale inglese invitava tutte le formazioni partigiane a sospendere le operazioni per tutta la durata dell’inverno. I partigiani si trovarono così in una situazione di isolamento, privati del sostegno e dei lanci alleati. I nazi-fascisti approfittarono della situazione per far partire una serie di attacchi mirati alla distruzione delle maggiori Brigate, che in quel momento controllavano vaste porzioni del territorio. I partigiani, impossibilitati a resistere a oltranza e a tornare a casa, furono spesso costretti ad attraversare il fronte della “Linea Gotica”, valicando i passi impervi delle Alpi Apuane, per raggiungere le zone dell’Italia centrale già liberate. Così accadde anche durante il rastrellamento avvenuto in Lunigiana il 29 novembre.
Il rastrellamento del 29 novembre 1944
All’alba del 29 novembre del 1944 i posti di guardia delle Brigate partigiane della Lunigiana e della Val di Magra, tra le province di Massa Carrara e La Spezia, avvistarono una quantità inusuale di truppe nazi-fasciste in movimento. Era l’inizio della “seconda settimana di lotta alle bande”, una vasta operazione di rastrellamento che fino al 5 dicembre investirà tutto il territorio compreso tra le città di Sarzana, Carrara e Massa. Tutto questo territorio venne accerchiato da un enorme cordone di militari della Wehrmacht, delle SS, delle brigate nere fasciste: 10.000 uomini. Dopo giorni di combattimenti feroci, la Brigata Garibaldi “Muccini”, fino ad allora composta da quasi 1000 partigiani, si trovò ridotta a poche decine di uomini. Circa 700 partigiani furono infatti costretti a oltrepassare la Linea Gotica, che in quel momento era la linea di difesa fortificata dai tedeschi, per raggiungere le terre già liberate. La Brigata Garibaldi “Gino Menconi” riuscì a limitare i danni grazie al sicuro rifugio delle cave di marmo. La Brigata “Carrara II” venne completamente annientata. La popolazione civile, costretta dalla guerra a vivere in condizioni di semiclandestinità, venne completamente investita dal rastrellamento e costretta a nascondersi in rifugi predisposti da tempo. Molti furono i morti anche tra i civili, mentre chi venne fatto prigioniero fu deportato nei campi di lavoro in Germania.
Il sacrificio della popolazione civile
I partigiani, dopo furiosi combattimenti, come quello a Gignago, sede del distaccamento “Ubaldo Cheirasco” della Brigata “Muccini”, furono costretti a sganciarsi, ed ebbero molte vittime. Molti furono i feriti, impossibilitati a muoversi. Vennero nascosti dai compagni nella boscaglia e qui attesero che il pericolo passasse con una sola convinzione: non consegnarsi vivi nelle mani dei tedeschi. Ma le vittime furono molte anche tra i civili. Durante il rastrellamento la totalità della popolazione presente sul territorio divenne oggetto di persecuzione. Centinaia di uomini e donne abitanti nella bassa Lunigiana, tra le province di Massa Carrara e La Spezia, vennero catturati e rinchiusi nell’ex colonia “Italo Balbo” di Marinella, in attesa di essere deportati nel campo di lavoro di Turkheim, vicino a Monaco di Baviera, dove sarebbero diventati la nuova forza lavoro del Terzo Reich. I più fortunati avrebbero fatto ritorno a casa solo dopo la fine della guerra. Altri civili vennero fatti prigionieri e tenuti come ostaggi, pronti per essere utilizzati come vittime sacrificali nelle rappresaglie.
Il coraggio delle donne
Costretti a scappare dalle truppe occupanti o a nascondersi in sicuri rifugi, gli uomini in forza e in età di leva obbligatoria abbandonarono le proprie case lasciando spesso le donne da sole. Ed è durante i conflitti che la donna acquisisce una maggiore visibilità: è chiamata a svolgere un ruolo che altrimenti non le è riconosciuto. All’interno della famiglia si attua infatti un rovesciamento di ruoli: è la donna a sostituire la figura maschile e a prendere l’iniziativa. Nei racconti sul rastrellamento del 29 novembre, raccolti grazie al prezioso lavoro dell’Associazione “Archivi della Resistenza – Circolo Edoardo Bassignani”, le donne affrontano coraggiosamente il nemico che viola la propria casa ricorrendo ai più svariati stratagemmi e alle tecniche di dissuasione tipiche della creatività di genere: dal fingersi affetti da malattie infettive (ben sapendo della paura che i tedeschi avevano delle malattie) a cucinare per i nemici, mantenendo la calma e fingendosi disinteressate della sorte di mariti, fratelli e compagni fuggiti ai monti. Molte madri incuranti del fuoco tedesco raggiunsero i luoghi dello scontro pur di rassicurarsi sulle condizioni dei propri figli, così come si racconta nell’episodio dello zabaione di Fonso in “54”, il libro del collettivo Wu Ming.
L’accanimento sui corpi
La guerra alle bande messa in pratica dagli eserciti occupanti conobbe spesso un particolare accanimento sui corpi degli avversari. I nazifascisti impedirono quasi sistematicamente che le vittime delle loro rappresaglie venissero seppellite minacciando la popolazione civile di ulteriori punizioni. Questa esposizione di corpi martoriati era una pratica che aveva per i nazifascisti una doppia finalità: sia quella di compiere un ulteriore gesto di spregio nei confronti degli avversari sia quella di terrorizzare la popolazione e tentare di spezzare ogni legame di solidarietà che questa intratteneva con i combattenti. Raccogliendo le testimonianze è frequente imbattersi in racconti di funerali clandestini fatti in gran segreto, a volte celebrati dai compagni di battaglia tenendo all’oscuro persino la famiglia del defunto per evitare ritorsioni da parte delle camicie nere. Molti dei partigiani caduti in combattimento saranno sepolti in montagna e riportati a valle soltanto a Liberazione avvenuta. Altri sepolti di notte al cimitero trasportando la salma attraverso i boschi. Ritorna, in queste testimonianze, il ruolo delle donne: molte si dimostrarono incapaci di negare un gesto di pietà nei confronti dei partigiani uccisi e a rischio della propria vita si preoccuparono di recuperare i cadaveri e di organizzare i funerali.
Eppure la Resistenza continua
L’inverno del 1944 fu il momento più duro per la Resistenza dell’Italia settentrionale, compreso il territorio apuano e lunigianese. Privati del sostegno degli alleati, i partigiani che non passarono il fronte e non raggiunsero le terre già liberate si trovarono ben presto senza armi. Le rigide condizioni climatiche, inoltre, determinarono enormi difficoltà dal punto di vista alimentare per tutta la popolazione civile, e di rimando per le formazioni partigiane che da essa erano sostenute. Le truppe occupanti, con lo scopo di “pulire” e rendere sicure le zone d’operazione, emanavano ordini di sfollamento, costringendo migliaia di persone ad abbandonare le proprie case e i propri paesi. Moltissime Brigate partigiane accusarono il colpo e si smembrarono, riuscendo a riorganizzarsi solo nella primavera del ’45, in vista dell’attacco finale. Molte, però, furono le formazioni che, seppur decimate, continuarono le operazioni di attacco all’esercito occupante. Tra esse la Brigata “Muccini”. Mentre il comandante Piero Galantini “Federico” passò le linee e giunse nella zona liberata dagli alleati, Flavio Bertone “Walter” e Paolino Ranieri “Andrea” rimasero nascosti nei boschi della zona per occuparsi dei feriti. “Andrea” cadde in un’imboscata il 14 dicembre proprio mentre era in cerca di medicinali, fu ferito, arrestato e incarcerato al XXI Reggimento a Spezia, dove rimase prigioniero, nonostante i tanti tentativi di liberarlo, fino al 23 aprile 1945. “Walter” riuscì, il 16 dicembre, a ricostituire formalmente la “Muccini”, con sei distaccamenti. Con lui, eletto comandante, c’erano Dario Montarese “Brichè”, Mario Portonato “Claudio” e Goliardo Luciani “Wladimiro”. Nelle colline di Castelnuovo continuò a operare la staffetta partigiana Vanda Bianchi “Sonia”. La “Muccini” di “Walter”, pur numericamente esigua e senza aiuti da nessuno, fu comunque molto attiva. Le brigate nere sarzanesi effettuarono una feroce rappresaglia il 10 aprile, fucilando otto antifascisti. Nella notte “Walter”, con dodici uomini, scese a Sarzana e fece saltare con la dinamite la caserma fortificata delle brigate nere: quelle superstiti, prese dal panico, abbandonarono la città. La “Muccini” ebbe anche una forte capacità di stabilire buoni rapporti con la popolazione: per esempio provvide, tramite un muratore, al restauro della scuola di Canepari, già sede della Brigata, e poi alla ripresa delle lezioni con il pagamento dello stipendio all’insegnante. “Walter” e i suoi uomini furono protagonisti, infine, della liberazione di Fosdinovo e di Sarzana, il 23 aprile, prima degli Alleati. La “Muccini” fu raggiunta dalla “Muccini di linea”: nella piazza di Sarzana ci fu l’abbraccio tra Bertone e Galantini, che sanzionava l’impegno comune degli antifascisti sarzanesi.
Turiddo Tusini, il ribelle contadino
Turiddo Tusini diventò partigiano a 17 anni, con altri giovani di Caniparola. La loro guida era Lido Galletto “Orti”. Erano antifascisti più per tradizioni familiari socialiste e anarchiche che per contatti con organizzazioni politiche clandestine. Il loro era un ribellismo di origine contadina, mi spiega Turiddo: “quando vedevamo un cittadino sentivamo l’inferiorità nei suoi confronti, pensavamo che il mondo dovesse essere governato dai contadini all’insegna della giustizia sociale”. Il gruppo si allargò a giovani renitenti alla leva o disertori, anche dell’area di Castelnuovo Magra. Era un gruppo di sinistra ma senza un vero legame con il Partito Comunista: un’autonomia ideologica e anche organizzativa, che rimase una caratteristica costante del gruppo. Anche quando, nel settembre 1944, nonostante le perplessità di Galletto, la banda “Orti” aderì alla Brigata “Ugo Muccini” e prese il nome di distaccamento “Ubaldo Cheirasco”, uno dei caduti dell’eccidio del monte Barca (marzo 1944).
25 ottobre 1944: l’occupazione di Fosdinovo
Turiddo, nome di battaglia “Volga”, fu uno dei protagonisti dell’occupazione di Fosdinovo, il 25 ottobre 1944. Al mattino giunse la notizia che i tedeschi stavano per abbandonare Fosdinovo. Una parte dei partigiani seguì i tedeschi lungo i tornanti della strada che scende a Caniparola, mentre l’altra entrò in Fosdinovo dalla parte del Castello, appena abbandonato e devastato. Altri dodici par-tigiani, tra cui “Volga”, ricevettero da “Orti” l’ordine di trasferirsi dalla scuola di Giucano, sede del distaccamento, a Fosdinovo. Fu recuperato dell’esplosivo e furono fatti saltare due ponticelli. I tedeschi erano più in basso, a “Villa Belvedere”, sotto la località Pilastri. Si accese un combattimento, nel quale morì un tedesco e un secondo rimase gravemente ferito. Il maresciallo che comandava la guarnigione fu fatto prigioniero. Il morto fu sepolto nel cimitero militare creato dai tedeschi, il ferito fu subito preso in cura da alcuni medici residenti a Fosdinovo: ma le sue condizioni erano disperate. Quale abissale differenza rispetto a come i nazifascisti trattavano i corpi dei nemici! Nella notte i partigiani lasciarono Fosdinovo per rientrare a Giucano: il tedesco ferito morì lungo il tragitto e fu subito sepolto. “Orti” mandò, attraverso il parroco di Giucano, un ultimatum ai tedeschi: se entro 24 ore non avessero sgomberato “Villa Belvedere”, sarebbero stati attaccati e distrutti; se avessero tentato di fare ritorsioni contro la popolazione, il maresciallo sarebbe stato ucciso. Qualora, invece, avessero acconsentito a ritirarsi oltre la via Aurelia, il prigioniero sarebbe stato restituito. I tedeschi cedettero, dopo una notte di vivace discussione, nella scuola di Giucano, tra il maresciallo e altri due tedeschi: l’ex capitano della Marina Militare germanica Rudolf Jacobs, ora partigiano della “Muccini”, e l’ex sottufficiale, anch’egli partigiano, Johan Fritz. Il tedesco sotterrato fu dissepolto e la salma fu composta dentro una cassa fabbricata in gran fretta da un falegname del paese. “Orti” riconsegnò al maresciallo le armi catturate nel combattimento. I nazisti si stabilirono a Sarzanello, a “Villa Colvara”. Nella foto in basso, scattata a Fosdinovo il 25 ottobre, sono ritratti Turiddo, a sinistra, e Amedeo Petacchi “Volpe”. Fidarsi del fotografo fu un errore, racconta Turiddo: “portò la foto ai fascisti, che arrestarono mio fratello”.
Il 29 novembre di Turiddo
Nel novembre arrivò il tifo a Giucano, e Turiddo si ammalò. Il rastrellamento lo colse malato. Con l’aiuto dei compagni riuscì a passare il fronte: “valicammo il passo del Pitone, da lì salimmo al monte Altissimo pieno di neve… fu un attraversamento lungo quattro giorni, fino ad arrivare a Pietrasanta, dove vidi gli alleati, erano quasi tutti neri”. Il 29 novembre fu una sconfitta, ma preparò la riscossa futura: sia perché ci fu chi riuscì a continuare a combattere, sia perché il rastrellamento “rinsaldò la solidarietà tra i partigiani e la popolazione civile”. “Era normale per la popolazione essere solidale -continua Turiddo- perché noi eravamo i suoi figli”. Turiddo rientrò in tempo per i funerali dei partigiani caduti: sia quelli uccisi nei giorni precedenti il 25 aprile, sia i morti del 29 novembre, che erano stati sepolti nei castagni. “Il nostro pensiero principale era quello di seppellire i morti”. Era il 5 maggio 1945: la Liberazione per Turiddo non fu una festa in piazza, ma lo straziante addio del popolo di Fosdinovo ai suoi martiri. Fu il giorno dell’addio anche a Nello Masetti “Carlin”, ucciso il 21 aprile 1945, uno dei primi ragazzi partigiani “ribelli contadini” del gruppo “Orti”, come Turiddo e come Bruno Brizzi “Nino”, scomparso poche settimane fa.
“Non è finita, non può finire”
Turiddo Tusini diventò comunista dopo la Liberazione. Andò a studiare nei Convitti Rinascita di Bologna e di Milano: “fu un’esperienza unica, lì ebbi l’istruzione e diventai un quadro politico”. Nel primo dopoguerra fu segretario dei sindacati dei chimici, degli edili e dei lavoratori del marmo nella Camera del Lavoro di Carrara, poi segretario della Camera del Lavoro di Pontremoli. Diresse la rivista della Camera del Lavoro “Rinascita dell’Apuania”: subì 39 processi per “diffusione di notizie false e tendenziose”, in base alle leggi di pubblica sicurezza fasciste, allora ancora vigenti. Subì una sola condanna, a 1000 lire di multa. Fu Sindaco di Fosdinovo dal 1956 al 1963, poi capogruppo del Pci in Consiglio Provinciale. Fu uno dei fondatori, incaricato dal Pci, della Cna, l’associazione degli artigiani, di Massa-Carrara. Non condivise la trasformazione del Pci in Pds: “la svolta della Bolognina mi tolse la vita”. Rimase comunista, e lo è ancora: “la Resistenza è la resistenza al mondo che ci è stato consegnato, alle ingiustizie del capitalismo”. Il 29 novembre ci siamo visti nel pomeriggio, con Alessio Giannanti di “Archivi della Resistenza”, a casa sua, a Caniparola. Ha novant’anni e qualche acciacco, e non ce l’ha fatta a partecipare alla manifestazione del mattino. Ha voluto conservare le forze per il voto di oggi. Voterà come l’Anpi, l’associazione dei partigiani. “Non è finita, non può finire”, ci dice. Con queste sue parole, alla sera, ho concluso a Sarzana la manifestazione “Musica, parole e voci per la Costituzione”.
Addio a Pavone, lo storico che riscoprì la moralità della Resistenza
Al mattino, nel discorso in ricordo del rastrellamento che ho tenuto a Caniparola nel “Parco della Memoria”, che “Orti”, “Volga” e gli altri “ribelli contadini” vollero realizzare nel dopoguerra, ho citato a lungo parole scritte da Claudio Pavone nel suo libro “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”. Proprio in quelle ore il grande storico ci lasciava. Il libro è uno dei libri più grandi del Novecento italiano. Capace di far comprendere i diversi percorsi attraverso cui prese corpo la Resistenza e di riflettere intensamente sul rapporto tra scelte individuali e vicende colletti-ve. Un libro sugli uomini e le donne della Resistenza, sulle loro convinzioni morali, sulle strutture culturali, sulle pulsioni emotive, sui dubbi e le passioni. Come quelle che emergono dal “ribellismo contadino” di Turiddo Tusini e dei ragazzi di Caniparola. Il mio “Eppur bisogna ardir” deve moltis-simo a questo libro, se non tutto. Perché alla radice di tutta la Resistenza, armata e civile, c’è quello che Pavone definisce “l’ardimento della scelta morale”. “Una guerra civile” è un grandissimo libro perché contiene le pagine più belle sulla moralità della Resistenza e perché ci costringe a riflettere sul nesso decisivo tra etica e politica.
Post scriptum:
Sulla Brigata “Muccini” si vedano, in questa rubrica:
“Dai monti di Sarzana”, 9 dicembre 2012
“La Brigata dei sarzanesi”, 19 e 26 aprile 2015
lucidellacitta2011@gmail.com
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