Quel legame sconosciuto tra Spezia e il Brasile
Città della Spezia, 17 luglio 2016 – Durval de Noronha Goyos Junior è un personaggio straordinario. Brasiliano, è un avvocato specializzato in diritto internazionale. Il suo studio ha 16 uffici in 8 Paesi, tra cui la Cina (Durval lavora per conto dello Stato), l’India, il Sudafrica… Parla otto lingue, tra cui il cinese. Ma anche il latino e l’italiano. Vive tra San Paolo e Londra, e ha una casa a Levanto. Il legame con l’Italia e con Spezia ha una lunga storia: lo zio di Durval, Ruy de Noronha Goyos, che vive ancora alla bella età di 103 anni, partecipò alla campagna della Forza di spedizione brasiliana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti, a fianco degli alleati e dei partigiani. Forse non tutti sanno quello che lo storico Maurizio Fiorillo ha raccontato nelle pagine finali del suo libro sulla Resistenza spezzina e lunigianese “Uomini alla macchia”: “Il 25 aprile i reparti tedeschi e fascisti si ammassavano a Pontremoli, ultimo centro prima del passo della Cisa. Essi minacciavano di distruggere la città se i partigiani avessero cercato di impedire loro il passaggio oltre l’Appennino. Su intercessione del vescovo di Pontremoli, Giovanni Sismondo, il comando della Divisione Cisa decise di non intralciare la ritirata. Anche se gran parte dei reparti si mossero di notte, i piloti alleati riuscirono comunque a localizzare le truppe in ritirata e a bersagliarle con mitragliamenti e lanci di bombe. La mattina del 27 aprile la piana era cosparsa di rottami di carriaggi, di cavalli morti, di armi abbandonate, di cadaveri… La tenacia dei reparti in ritirata oltre il passo della Cisa si rivelò inutile: appena giunti in Emilia si trovarono circondati dai partigiani parmensi e soprattutto della 1° Divisione brasiliana e della 34° Divisione americana. Il 29 aprile il generale tedesco Fretter Pico e l’italiano Carloni accettarono di arrendersi”. I nazisti che avevano brutalmente occupato la nostra città e l’avrebbero distrutta se non fossero arrivati i partigiani, e una parte dei fascisti spezzini che avevano ucciso e torturato per anni -solo una parte perché purtroppo molti di loro si potevano confondere con la popolazione e riuscirono a sfuggire alla cattura- furono fatti prigionieri e assicurati alla giustizia grazie ai partigiani parmensi e, tra gli alleati, principalmente ai brasiliani. Tra i primi c’erano anche partigiani spezzini e lunigianesi che le vicende della Resistenza avevano condotto nel parmense, come Laura Seghettini e Federico Salvestri “Richetto”. Tra i secondi c’era il sergente Ruy de Noronha Goyos.
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Invitato dagli amici del Comitato Vallesanta e della sezione Anpi ho presentato nei giorni scorsi a Levanto il libro di Durval “La campagna della Forza di spedizione brasiliana per la liberazione d’Italia”, presente l’autore. E’ un libro importante, molto documentato, che ha il merito di descrivere una delle pagine più belle della storia contemporanea brasiliana, che è anche una pagina decisiva della storia contemporanea italiana e spezzina. Ma perché il Brasile combatté in Italia? E’ una storia complessa e contraddittoria, ben raccontata da Durval. E’ imperniata su un personaggio chiave: Getulio Vargas, leader del movimento dei “tenentisti”, protagonista del colpo di stato del 1930. Fu un golpe antidemocratico, promosso da una forza anticomunista e molto vicina al fascismo, che diede vita a una dittatura, tanto più dopo un secondo golpe, nel 1937. Lo “Stato nuovo” voluto da Vargas era fascista, ma assai poco razzista nei confronti degli ebrei, anche se in Brasile vivevano molti italiani e tedeschi, in gran parte filofascisti e filonazisti. E dal punto di vista della politica commerciale ed estera il governo brasiliano praticava una sorta di “pendolarismo” tra Germania e Usa. C’era il timore che la Germania fomentasse la separazione di tre degli Stati del sud del Paese, per creare la “Germania Antartica”. Cominciò così, dal 1939, l’avvicinamento, lento e non privo di contraddizioni, del Brasile agli alleati, fino al 1941 e alla rottura con la Germania, che minacciò la guerra al Brasile. I motivi furono economici e geopolitici, non ideali. Il Ministro degli Esteri di Vargas lo ammise con onestà: “Non fu Getulio, né fui io, né nessun’altro a forzarci a rompere i rapporti con la Germania. Fu la nostra posizione geografica, la nostra economia, la nostra storia, la nostra cultura; insomma, la condizione della nostra vita e la necessità di sopravvivenza”. E inoltre la speranza di Vargas di accrescere il ruolo del suo Paese nello scenario internazionale. Il Brasile, temendo l’invasione tedesca, iniziò a difendere le sue coste. Ormai la strada era tracciata: il 22 agosto 1942 il Brasile dichiarò guerra alla Germania e all’Italia. Si strinsero i legami con gli Usa, che furono fondamentali per l’addestramento militare. Si arrivò così alla Forza di spedizione in Europa, creata il 9 agosto 1943, operativa dal giugno 1944: 25.000 uomini, con una grande leva di volontari, animati da un forte spirito democratico e antifascista (il Partito comunista del Brasile, per esempio, orientò molti suoi militanti ad arruolarsi). La Forza di spedizione comprendeva molti discendenti di immigrati italiani e tedeschi, nonché di altre nazionalità: era un vero esercito “multiculturale”, permeato da un forte spirito antisegregazionista. Spiega Durval: “Il multiculturalismo non era segnato da segregazioni e divisioni dei battaglioni di bianchi, neri e giapponesi, come lo erano all’opposto le forze americane, dove i soldati neri venivano esclusi dalle guardie d’onore e si presentavano sempre separatamente, spesso con attrezzature inferiori, fino alla fine della guerra”. Non a caso l’integrazione multiculturale delle truppe brasiliane fu utilizzata per promuovere la campagna di diritti civili dei neri negli Stati Uniti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Anche il rapporto con i civili italiani e con i nostri partigiani fu migliore rispetto a quello degli altri alleati, come risulta da molte testimonianze e dai monumenti, vie e piazze dedicate alla Forza brasiliana: i soccorsi e i rifornimenti ai civili furono spesso oltre i limiti stabiliti dagli alleati, e molte furono le missioni comuni con i partigiani, sia di Giustizia e Libertà che garibaldini. Arrivati a Napoli con un lunghissimo viaggio, i brasiliani si diressero poi verso Livorno. Da qui liberarono Massarosa, Bozzano, Quiesa, Camaiore, il monte Prana e Barga. Ho lavorato con il Parco di Migliarino-Rossore-Massaciuccoli e con il Comune di Pisa, e so quanto grande sia la riconoscenza delle popolazioni locali alla Forza brasiliana, come testimoniano i cippi, le manifestazioni, le mostre… Ho mantenuto una forte amicizia con l’associazione che gestisce, sul lago, l’edificio della Brilla, che fu la sede del Comando brasiliano. Ci vado spesso, e ogni volta il mio pensiero va ai “pracinhas”, come venivano chiamati in Brasile i soldati che combattevano in Europa. Così sul monte Prana, uno dei miei preferiti nelle Apuane: sulla vetta, da cui si gode un panorama straordinario, un cippo ricorda la Forza brasiliana. Il sentimento è reciproco: a Rio de Janeiro, vicino al Maracanà, esiste rua Camaiore! La Forza brasiliana si spostò poi in Emilia, quindi in Piemonte, dove liberò Alessandria, poi ancora in Emilia, dove liberò Fornovo. Fino a sgominare tedeschi e fascisti in fuga da Spezia nel parmense, dopo il 25 aprile. 456 furono i soldati brasiliani caduti per la nostra libertà, 22 i piloti.
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La guerra antifascista e antinazista aveva spinto alla democratizzazione del Brasile. Vargas per un po’ resistette, ma capiva che non aveva davanti altre strade. Il 18 aprile 1945 decretò un’amnistia generale e liberò tutti i prigionieri politici, tra cui Luiz Carlos Prestes, il capo del Partito comunista, e i suoi compagni. Ma il 28 ottobre dello stesso anno ci fu un colpo di Stato militare contro Vargas, per il timore di un suo avvicinamento all’Urss. Stava arrivando la “guerra fredda” tra Usa e Urss, il Brasile -come l’Italia- nel mondo diviso in due doveva stare con gli americani, senza se e senza ma. Furono gli anni in cui si cercò di dimenticare e di rendere marginale l’esperienza della Forza brasiliana per la liberazione dell’Italia. Così come successe a noi con la Resistenza. E tuttavia, in entrambi i Paesi, i valori democratici e umanitari erano ormai diventati patrimonio di grandi masse di popolo. Dopo periodi bui, quei valori tornarono egemoni. In Italia con il centrosinistra, poi con le lotte degli anni Settanta. In Brasile più tardi, con i governi del Pt (Partido dos Trabalhadores) guidati da Luiz Inacio Lula da Silva, protagonisti della lotta alla fame e alle diseguaglianze. Proseguendo in questi parallelismi molto schematici, si può dire che oggi le forze di sinistra e democratiche conoscono una fortissima crisi sia in Italia che in Brasile, e che la “questione morale” è centrale in entrambi i Paesi. Si può uscire da questa crisi, in entrambi i Paesi, solo ripartendo dai valori del 1943-45: i valori universali dell’umanesimo, che caratterizzarono la lotta di Liberazione dal nazifascismo. Frei Betto, teologo e scrittore brasiliano, recentemente ha detto: “I governi di Lula e il primo di Dilma sono stati i migliori della nostra storia repubblicana. Basta vedere gli indici sociali ed economici. Però il Pt, nei 12 anni in cui è stato al Governo in Brasile, ha creato una nazione di consumisti e non di cittadini consapevoli”. Ritorna la lezione della Resistenza: essere attori, non spettatori. Attori consapevoli soprattutto di una cosa: che bisogna volere l’impossibile, perché l’impossibile accada. Le prime rivendicazioni del movimento operaio o di quello femminista, così come la sconfitta del nazifascismo, sembravano obbiettivi impossibili. Ma si realizzarono. Oggi la tendenza è quella a essere spettatori, e a considerare irrealistici anche obbiettivi minimi. Bisogna, invece, ricominciare a essere “cittadini consapevoli” che ricominciano a pensare l’impossibile. La Resistenza ci indica il valore della scelta morale e una concezione della politica. La politica come virtù e progetto del futuro, non solo come tecnica ed esercizio del potere. La politica dei fini, non solo dei mezzi. Vittorio Foa scrisse che, subito dopo la Liberazione, “molti di noi si innamorarono allora della tecnica politica”, da lui contrapposta alla poesia e alla verità (“Carlo Levi uomo politico”, in “Galleria”, maggio-dicembre 1967). Nelle parole di Foa, ha scritto lo storico Claudio Pavone in “Una guerra civile”, “c’è come la nostalgia dell’unità di politica, poesia e verità sperimentata nella felice stagione resistenziale, e insieme, più segreta, l’aspirazione a non rinunciarvi”. Oggi, più che mai, in Italia, in Brasile e in tutto il mondo, non dobbiamo rinunciare all’utopia, all’unità di politica, poesia e verità.
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