Quando la guerra è un affare
Città della Spezia, 21 febbraio 2016 – Che cos’è l’Isis? Dobbiamo mettere meglio a fuoco l’avversario: ha il segno dell’estremismo -o del fondamentalismo, che dir si voglia- wahabita, una componente che è nata e ha basi in Paesi che sono amici ed alleati dell’Occidente e dell’Italia, l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo. Un discorso chiaro con questi Paesi è stato rinviato per troppo tempo. Ma ora è arrivato il momento di farlo. E’ anche e soprattutto per questo che, insieme ad altri quaranta amici dei movimenti pacifisti e nonviolenti spezzini, ho presentato nei giorni scorsi un esposto in Procura per chiedere di indagare sulle forniture di bombe dall’Italia all’Arabia Saudita e ai suoi alleati, partite anche dalla nostra città (si veda “Dalla Spezia partono armi destinate allo Yemen e all’Isis”, su “Città della Spezia”, 16 febbraio 2016). Il reato individuato è quello di violazione dell’articolo 1 della legge 185/90, che vieta l’esportazione di armi verso Paesi in stato di conflitto armato e che violano i diritti umani. L’Arabia Saudita e i suoi alleati stanno bombardando, anche con le nostre armi, lo Yemen: non se ne parla quasi, ma è una guerra senza mandato delle Nazioni Unite, che sta provocando una gravissima crisi umanitaria. Le cifre parlano da sole: 6.000 civili morti, 15,2 milioni di persone senza accesso alla sanità, 14,4 milioni senza accesso al cibo, 1,5 milioni di sfollati, 500.000 bambini malnutriti e con problemi psicologici, 1 su 4 infrastrutture del Paese distrutte.
L’Occidente, finora, ha visto una delle due componenti dell’Islam, gli sciiti (l’Iran innanzitutto), come una minaccia. Ma i terroristi che ci sparano e lanciano le bombe sono gli estremisti sunniti, non gli sciiti. Per combatterli dobbiamo isolarli anche tra i sunniti: certo non dobbiamo armarli! Il punto è che la guerra è un affare, e che l’Italia è tra gli Stati affaristi. Lo spiegano i documenti ufficiali: dalle Relazioni inviate dal Governo alle Camere si ricava che nel quinquennio 2010-2014 la destinazione principale delle nostre armi è stata il Medio Oriente, per un ammontare di 5 miliardi di euro. Di questi, un miliardo e 200 milioni all’Arabia Saudita, che negli ultimi dieci anni ha aumentato del 156% le spese militari. Che gruppi legati alla monarchia Saudita abbiano armato o favorito le milizie del “Califfato” non è un mistero. Ce lo spiega, tra gli altri, Khamed Daoud su “The New York Times”: “Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente è in guerra con l’uno (l’Isis) ma stringe la mano all’altro (l’Arabia Saudita). Si vuole salvare la storica alleanza strategica con l’Arabia Saudita dimenticando che questo regno si fonda su un’altra alleanza, quella con la gerarchia religiosa che produce, legittima, predica, difende e diffonde il wahabismo, la versione dell’Islam ultrapuritana di cui si nutre l’Isis”. La conclusione è un Occidente che fa finta di non sapere che “l’Arabia saudita è un Isis che ce l’ha fatta”.
I sauditi e le altre cleptocrazie del Golfo, ora che l’Isis è cresciuto -grazie alle armi da loro stessi fornite-, dicono di temerlo e gli hanno dichiarato guerra: bene, ma dobbiamo dire loro che il tempo del doppio gioco è scaduto. L’Isis non è una entità astratta, il frutto di un incidente della storia, esiste anche perché ha avuto un sostegno da Paesi nostri amici. Non solo l’Arabia Saudita, ma anche la Turchia, che pure fa parte della Nato. Per sconfiggere l’Isis serve una strategia complessa, ma alcune misure la metterebbero in seria difficoltà: bloccare il commercio delle armi e boicottare l’acquisto del petrolio. Anche l’Italia deve mutare rotta. Perché anche l’Italia è stata ed è silenziosa sul massacro in corso in Yemen e pure sulle pene capitali emesse dallo Stato più boia del mondo in percentuale rispetto al numero degli abitanti, una dittatura feroce che opprime le opposizioni e i diritti umani. Nel novembre scorso Matteo Renzi si è recato a Riyhad a omaggiare l’alleato saudita, ignorando l’appello di Rete Italiana per il Disarmo, Amnesty International Italia e Osservatorio permanente sulle armi leggere e sulle politiche di difesa e sicurezza (Opal) di Brescia per sospendere l’invio di armi e condannare la violazione dei diritti umani. Come sarebbe giusto fare se fosse la pace a interessarci, e non le commesse per l’industria delle armi. Ma è la pace che va rimessa al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così difficile.
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