Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 29 novembre ore 16.30 a Pontremoli
24 Novembre 2024 – 21:44

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 29 novembre ore 16.30
Pontremoli – Centro ricreativo comunale
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Rubrica Luci della città di Giorgio Pagano

Un referendum anti casta

a cura di in data 20 Gennaio 2016 – 22:41
Principe, struttura della roça di Belo Monte, trasformata in hotel    (2015) (foto Giorgio Pagano)

Principe, struttura della roça di Belo Monte,
trasformata in hotel
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 17 gennaio 2016 – Ormai la riforma costituzionale Boschi-Renzi è cosa fatta, il testo non è più modificabile dal Parlamento. Per dirla con le parole di Maurizio Viroli, studioso di filosofia e di teoria della politica, “il 2016 consacrerà la fine della Repubblica nata 70 anni fa e il consolidamento del principato renziano”. Viroli parla di principato perché “con l’entrata in vigore dell’Italicum e della riforma costituzionale Renzi avrà sul Parlamento, ridotto a una sola camera deliberativa, un potere di fatto senza limiti”. Domenico Gallo, magistrato, concorda: “L’impostazione di fondo che c’è dietro questo progetto di grande riforma (comprensivo della riforma elettorale) non è quello della revisione della Costituzione, ma del suo superamento, cioè dell’abbandono del progetto di democrazia costituzionale prefigurato dai padri costituenti per entrare in un nuovo territorio, dove le decisioni sono più ‘semplici’, perché, per legge, il governo è attribuito a un unico partito, sciolto dagli impacci di dover mediare con partiti e partitini di una coalizione; dove il Parlamento è ridotto a un’unica Camera (che legifera e dà la fiducia, mentre l’altra Camera, il Senato, ha un ruolo meramente decorativo), sottoposta a un ferreo controllo da parte del governo del partito unico, al quale la legge elettorale garantisce una maggioranza assicurata e la riforma costituzionale garantisce il controllo dell’agenda dei lavori parlamentari, dove le istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale) sono deboli e non possono interferire con l’esercizio dei poteri di governo che, invece, sono ‘forti’”.

Non c’è dubbio, penso io, che siamo davanti a una riforma pessima. Nel metodo, perché è stata costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del “Porcellum”, cioè della legge elettorale con cui sono stati eletti gli attuali deputati e senatori. La riforma è stata approvata da una maggioranza raccogliticcia, che non esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. La differenza con l’Assemblea costituente del dopoguerra è davvero abissale. Allora la Costituzione fu un grande impegno collettivo: di tutti con tutti. La Costituzione dovrebbe essere, infatti, la regola della convivenza tra tutti, una garanzia reciproca. Oggi, invece, la riforma della Costituzione è stata promossa, anzi imposta con il voto di fiducia -fatto inaudito, mai accaduto nella storia della Repubblica-, dal Governo e dalla sua maggioranza. Una maggioranza risicata e posticcia, frutto, tra l’altro, non solo del “Porcellum” ma anche di non pochi “cambi di casacca”.

Principe, Praia Banana    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Principe, Praia Banana
(2015) (foto Giorgio Pagano)

La riforma è pessima anche nel merito. Perché o il Senato diventa davvero come il Bundesrat tedesco in un vero Stato federale -un Senato delle Regioni, con rappresentanti delle Regioni eletti dai cittadini-, o tanto vale abolirlo, ma approvando nel contempo una legge elettorale proporzionale, basata cioè sul principio della rappresentanza. Con la riforma Boschi-Renzi e l’Italicum avremo, invece, un Senato fittizio, composto dai consiglieri regionali -un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità- non eletti dai cittadini ma nominati in base a un patto spartitorio tra i partiti; e uno spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo, grazie all’unica Camera eletta con un sistema ipermaggioritario e quindi per nulla rappresentativa, consegnata nelle mani del leader del partito vincente -anche con pochi voti- nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando. I numeri parlano da soli: con il non voto tra il 30 e il 40%, e tre soggetti politici, il Pd, la destra e il M5S, attestati intorno al 30%, al governo vincente mancherebbe il consenso di tre elettori su quattro. Il ballottaggio, previsto dall’Italicum nel caso in cui una forza non vincesse al primo turno con il 40% dei voti, è uno schermo ingannevole che non cambia questa realtà. Se nessun partito raggiunge quella soglia, i due partiti più votati partecipano comunque al ballottaggio, qualunque percentuale abbiano raggiunto: uno dei due necessariamente supererà l’altro ottenendo il premio in seggi e il dominio su tutti, pur avendo un consenso elettorale bassissimo. Tra l’altro -sia detto per inciso- nonostante la sicumera di Renzi il ballottaggio si trasformerebbe in una roulette russa: gli elettori di destra potrebbero votare il candidato del M5S o viceversa, mandando in entrambi i casi il Pd all’opposizione. Il punto è che il sistema elettorale si è solidificato in tre poli e non in due, e che invece l’Italicum è pensato per una competizione bipolare che appartiene a un passato che, almeno oggi, non ritorna. Gli oppositori dell’Italicum sono tacciati di “passatismo”: ma se ci pensate bene il vero “passatista” è chi ha promosso e imposto l’Italicum! L’esito voluto è un favore per governi a vocazione minoritaria: un esito a cui non avrebbero mai potuto pensare i padri costituenti, per i quali -giustamente!- il punto di partenza indispensabile per governare era avere un consenso reale nel Paese. Tant’è che la cosiddetta (per gli oppositori) “legge truffa” voluta dalla Dc nel 1953 trovava applicazione, con il premio di maggioranza, solo con il conseguimento della maggioranza assoluta dei voti (il 50,1%, in un tempo in cui a votare andava il 90%). Che si stia scassando la Costituzione è chiaro. Facciamo l’esempio più grave: se l’Italia dovrà decidere su pace o guerra l’unica sede in cui farlo sarà la Camera, in cui la minoranza vittoriosa sarà assolutamente padrona, tanto più che i suoi deputati saranno in buona parte designati, guarda caso, dal capo del partito. La centralità del Parlamento -posta dai padri costituenti a presidio delle libertà dei cittadini- verrebbe drasticamente ridimensionata.

La domanda, a questo punto, diventa: ma perché si vuole questo enorme accentramento di potere? Forse perché stiamo attraversando tempi difficili, che richiedono scelte dure, che si vorrebbero compiere contro i più deboli, e si ritiene che ci debba essere con chiarezza chi comanda e chi è comandato. Certo, sono e saranno tempi difficili, dalla crisi economica alle diseguaglianze sociali, dal terrorismo endemico alla difficile convivenza tra culture diverse. Ma pensare di affrontarli riducendo il potere in poche mani non è solo contro la Costituzione, è anche politicamente sciocco, perché è illusorio. Quando, nel dopoguerra, gli italiani hanno ricostruito il Paese l’hanno fatto tutti assieme, pur nel duro scontro politico, con un impegno dei cittadini, delle associazioni, dei sindacati, non certo solamente dei vertici di un partito o di un governo. Oggi, invece, i cittadini e le strutture sociali contano sempre meno: è “il passaggio dalla democrazia all’oligarchia” di cui parla il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky.

Per capovolgere questo impianto serve il referendum, la partecipazione democratica e di massa. Il referendum è lo strumento dato dalla Costituzione a chi si oppone alla riforma, non a chi la approva. Quindi la trasformazione voluta da Renzi del referendum in plebiscito su se stesso è un’ennesima forzatura, un’ulteriore dimostrazione che questa riforma non è costituzionale, è governativa. Ma quello a cui saremo chiamati è un referendum sui valori della Repubblica e sulla democrazia costituzionale, non sul Governo o sulla sorte di un capo politico. Renzi punterà tutto su una mistificazione: il conflitto tra i riformatori, che vogliono modernizzare le istituzioni, e i conservatori, che vogliono difendere i privilegi della casta. In realtà si vogliono far passare come innovazioni delle riforme istituzionali che tendono a restaurare forme di potere autocratico superate dalla storia. In realtà le riforme Boschi-Renzi, ha scritto un altro studioso, Alfio Mastropaolo, “ci restituiranno una casta assai più irraggiungibile, più privilegiata e più immorale”. La democrazia si difende dalla politica che si fa casta con la comparsa nell’arena di concorrenti che sfidino la casta mettendo in circolo idee nuove, nuovi progetti di società, e alimentando la moralità che scarseggia. Ma perché questo accada la democrazia deve aprirsi, non blindarsi. Boschi-Renzi vogliono blindare una casta già alquanto blindata: ecco perché, come scrive Mastropaolo, “questo è un referendum anti casta”. Sono d’accordo: non ho mai partecipato al qualunquismo del banchetto anti casta, ma se uno dei capi della casta mi dice che non difendo la Costituzione ma la casta, allora devo rispondergli allo stesso modo di Mastropaolo.

Per sconfiggere la blindatura serve una mobilitazione molto ampia. Oggi, sostengo nel mio “Eppur bisogna ardir”, non esistono più “partiti costituzionali”. Per difendere i valori della Costituzione dobbiamo ripartire dalle persone, dalle donne e dagli uomini semplici che hanno fatto la Resistenza e, più in generale, dalle donne e dagli uomini semplici che si sono battuti e si battono per la democrazia nella nostra storia del dopoguerra e di oggi. Non dai poteri costituiti, ma dai germogli che nascono dal basso, dalla società. Alla testa della mobilitazione delle donne e degli uomini semplici, per raccogliere sia la loro rabbia sia la loro silenziosa solitudine, non potrà che esserci l’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, erede della Resistenza. Il suo presidente nazionale, il partigiano novantenne Carlo Smuraglia, ha detto nei giorni scorsi: “Dopo aver cercato di ispirare tutta la mia vita a un modello di coerenza, non posso certo finirla con una manifestazione di incoerenza”. Sta a tutti noi, donne e uomini semplici, raccogliere questo appello.

Post scriptum
Sull’Italicum ho scritto: “Italicum: quando il rottamatore si trasforma in restauratore”, in questa rubrica, 9 febbraio 2014; e “L’Italicum e i cittadini che vogliono contare”, sul Secolo XIX dell’8 dicembre 2015 (leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com)

lucidellacitta2011@gmail.com

Popularity: 3%