Il mito del “food” e la dieta dei musei
Città della Spezia, 22 novembre 2015 – Nel periodo della mia permanenza estiva a Spezia, tra le due missioni africane, ho fatto in tempo a fruire di quelle che probabilmente sono state le occasioni culturali più interessanti e meno “provinciali” della stagione: il concerto di Patti Smith nell’area ex Vaccari a Ponzano, destinata a luogo per la creatività, e la mostra fotografica di Elliott Erwitt negli spazi molto suggestivi della Turris Magna di Castelnuovo, appena restaurata. Quindi qualcosa si muove, anche dalle nostre parti. E a Spezia? Ho risposto a una domanda sulla Festa della Marineria in un’intervista estiva (“Pagano a Sao Tomè per la cooperazione con un occhio a Spezia”, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com) e confermo la critica che espressi allora: “una festa folcloristica locale”, imperniata sulla “nuova religione del mangiare”. Ovviamente la Festa è piaciuta a molti spezzini, che hanno avuto per l’appunto una festa “nazionalpopolare” in più, e ha attratto pochi turisti, che feste di questo tipo ne trovano un po’ dappertutto. Ma probabilmente era questo l’obbiettivo degli organizzatori. Peccato, il tema del cibo (sorry, del “food”!) avrebbe potuto essere affrontato in chiave non solo ludica ma anche culturale e critica, facendo anche “pensare”. Ma il “clima dei tempi” è questo: Mytiliade, a Lerici, mi pare abbia avuto lo stesso taglio. Il perché lo spiega molto bene Guia Soncini nel suo libro “La repubblica dei cuochi”. Tutto è cominciato, o precipitato, nel dicembre 2012, quando lo chef e giurato di “Masterchef” Carlo Cracco, ancora non famosissimo, ha posato per la copertina del mensile “GQ” in compagnia di una modella vestita solo di stivali, che lo abbracciava impugnando per la coda un grosso dentice. E’ lì che si è sancita la sacralità degli chef, proseguita con Massimo Bottura da Fabio Fazio, e così via. Del “clima dei tempi” fa parte anche il fascino di un personaggio come Oscar Farinetti, che è riuscito a convincere gli italiani che il nostro cibo sia un esotismo che ha inventato lui e non le nostre mamme e nonne. Tant’è che, saltellando renzianamente tra un renziano e l’altro, si è proposto sia per il waterfront spezzino (ma non se ne parla più, come non si parla più del waterfront) sia per la tenuta di Marinella. Insomma, al piacere autentico della buona tavola di una volta si stanno sostituendo l’ossessione mediatica per l’”impiattamento”, lo “street food”, e così via. Eppure, se si vuole trovare un’identità -questa sì di richiamo turistico!- per la nostra terra è anche al cibo che bisogna tornare, ai sapori di una volta, all’agricoltura… Al mangiar bene legato ai luoghi e non al “gastrofighettismo”.
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Restando al tema della cultura, nei mesi scorsi mi hanno colpito due interviste. La prima è di Francesca Cattoi, consulente del Comune per il CAMeC, alla “Nazione” (24 giugno). Tutti gli altri musei crescono nei numeri, mentre il CAMeC perde visitatori, incalza il giornale. Il declino del CAMeC viene da lontano: nel 2008 non fu rinnovato il contratto al direttore Bruno Corà, che aveva portato il museo all’attenzione nazionale e internazionale con le mostre di Tinguely e Munari, Melotti, Pistoletto e tanti altri, e con la ripresa di una manifestazione storica come la Biennale del Golfo. Ed è proseguito, anno dopo anno. La Cattoi risponde un po’ demoralizzata: “Ho dovuto operare in una situazione di totale economia, con pochissimi soldi e senza possibilità di fare promozione… o si sposta la linea sulla contemporaneità o il CAMeC ha poche speranze di sopravvivere… visto che le risorse a disposizione sono limitate, forse converrebbe indirizzarle in toto sul Museo del Castello San Giorgio e sul Museo Lia, che hanno maggiori aspettative di successo”. Sul che fare per uscire da una situazione che appare disperante ritorno sulle linee emerse dal convegno dell’Associazione Culturale Mediterraneo “La città e la cultura. Idee e pratiche a confronto” (la documentazione è sul sito dell’Associazione, così come il mio articolo dedicato al convegno “Cultura, la svolta necessaria”), organizzato nel febbraio 2014. Un punto chiave è quello della concezione del museo come luogo partecipato e inclusivo, aperto alla voglia di fare di cittadini, associazioni, gruppi, in cui tentare la “costruzione condivisa della cultura”. L’assessore Luca Basile, presente a quel convegno, ha più volte insistito su questo punto, con qualche primo risultato. Io non c’ero, ma alcuni giovani spezzini mi hanno parlato molto bene nei giorni scorsi della mostra fotografica “Mettiamoci la faccia. Artisti della città al Museo”, in cui alcuni fotografi spezzini hanno “mappato” molti studi d’artista pure essi spezzini. E’ un’iniziativa di qualità, che ha coinvolto molte realtà. Segna, quantomeno, una giusta direzione di marcia.
L’altro punto chiave è quello della creazione di un “sistema culturale territoriale”: un sistema unitario e integrato tra musei, teatri e biblioteche, che quantomeno coordini le strutture dei diversi Comuni, per favorire economie di scala e competenze maggiori per la partecipazione e il marketing, funzioni che si esercitano assai meglio a livello, appunto, territoriale, più che comunale. E’ un punto su cui tutto si bloccò nel 2008: la società Spav (composta da Comune, Provincia, Camera di Commercio e Fondazione Carispezia), che finanziava le attività del CAMeC, fu sciolta, e nel contempo fu accantonato il progetto -che era giunto a uno stadio molto avanzato- di una Fondazione di partecipazione per la gestione dei musei costituita da questi enti e aperta al contributo dei privati, sul modello di quella operante nella gestione dell’Università. Le responsabilità del fallimento vanno equamente condivise, per quel che ho potuto capire, tra Comune e Fondazione Carispezia. Fatto sta che da allora la riflessione su un nuovo modello di gestione che unisca gli enti pubblici e pubblico e privato si è interrotta, e ha portato all’attuale situazione. Che non può, però, durare a lungo: i musei vivranno solo se diventeranno più forti, altrimenti la loro sarà una lenta agonia. Il rapporto tra Comune e Fondazione Carispezia è, come allora, decisivo. Un segno che si va in una nuova direzione di marcia lo si può forse intravvedere nella decisione dei due enti di dar vita al “Tavolo della cultura”, definito come “strumento di consultazione permanente composto da rappresentanti di Comune, Fondazione e organizzazioni no profit… per condividere gli obbiettivi della rispettiva programmazione culturale”. Meglio sarebbe stato parlare di “comune programmazione culturale”, ma si tratta comunque di un passo avanti rispetto alla realtà attuale, che vede Comune e Fondazione operare come due “fortini” separati, ognuno con le sue mostre, conferenze, concerti…
Il confronto lo ha aperto il Presidente della Fondazione Melley, nell’altra intervista che ho richiamato all’inizio di questo articolo (“La Nazione”, 3 ottobre): “Le iniziative culturali servono a rilanciare anche dal punto di vista economico un territorio. Ma per riuscirci bisogna caratterizzarsi su un’identità locale e sapersi ritagliare uno spazio nel panorama culturale nazionale. La domanda a cui dare risposta è ‘che cosa caratterizza l’identità culturale di questa città e quali sono i filoni di questa identità non coperti da un’altra città?’… Della Festa della Marineria, da consumatore, ho apprezzato lo “street food”. Ma lo “street food” ce l’hanno tutti: pensiamo di competere con questo? Nel campo culturale non dobbiamo prendere scampolo da altri, ma creare qualcosa di nostro… La Festa della Marineria non è stata pensata. C’è un assemblaggio più o meno pregevole di una serie di iniziative ma non c’è un progetto. Gli eventi culturali richiedono uno studio”. Parole condivisibili: a patto che l’identità culturale non viva solo di eventi, più o meno riusciti. Capisco la necessità degli eventi e, se ben pensati, li apprezzo. Ma dobbiamo pur riflettere sul fatto che i quattro giorni della Festa della Marineria sono costati 850.000 euro e che i tre giorni del Festival della Mente sono costati, immagino, poco meno. L’identità culturale vive nei musei, nei teatri, nelle biblioteche, nelle strutture che producono cultura 365 giorni l’anno, nelle tante, quotidiane, iniziative di “costruzione condivisa di cultura”. E un tema chiave dell’identità culturale spezzina è senz’altro “il contemporaneo”, in particolare nell’arte: dal Futurismo alla Biennale del Golfo, passando per la notevole produzione artistica di pittori, scultori e fotografi spezzini o legati al nostro territorio. Insomma, per tornare al tema del CAMeC: oltre a tutto ciò che abbiamo detto, servirebbe pure qualche euro in più. Anche perché l’arte contemporanea provoca e sollecita continuamente i nostri cervelli, ed è quindi un potente antidoto contro chi li vorrebbe atrofizzati.
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