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“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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La Colonna Giustizia e Libertà

a cura di in data 4 Novembre 2017 – 21:02

Centenario del Comandante Daniele Bucchioni
La Spezia, Sala della Provincia
10 ottobre 2017
Relazione di GIORGIO PAGANO

La mia relazione ha il compito di collocare la vicenda partigiana di Daniele Bucchioni nella storia della Colonna “Giustizia e Liberta”, la formazione partigiana a cui fu sempre legato.

Subito dopo l’8 settembre 1943 molti giovani delle varie frazioni del Calicese iniziarono l’attività cospirativa e organizzativa antinazista e antifascista: raccoglievano armi abbandonate e prendevano contatti tra loro. Il primo incontro clandestino si tenne il 19 settembre vicino all’abitato di Debeduse, nel cascinale “Buscini”. Daniele Bucchioni “Dany”, di Borseda, fu colui che tesse in silenzio questa rete. Questi ragazzi, per fornire una valida copertura alla loro attività, diventarono taglialegna e carbonai, sostituendosi a un’impresa che aveva dovuto abbandonare i lavori nel bosco. Per il trasporto delle armi fu preziosissimo il ruolo di Orazio Montefiori “Martini”, che gestiva un forno a Pian di Follo e portava pane e farina nelle frazioni con un calesse: il luogo adatto dove nascondere le armi.

I primi contatti con “Giustizia e Libertà” avvennero tramite il Colonnello Giulio Bottari, nel novembre 1943. Bucchioni lo chiamava con il nome di battaglia di “Zio Cesarino”. Bottari stava organizzando la “Brigata d’Assalto Lunigiana”, cui il gruppo calicese aderì: fu il primo nucleo della Colonna.

La storia della Colonna “Giustizia e Libertà” nei nostri monti -la IV Zona Operativa- spinge innanzitutto a una riflessione sull’esperienza più generale del movimento “Giustizia e Libertà” e sulla sua importanza nella Resistenza italiana.

Il movimento nacque nel 1930, il suo fondamento ideologico era il saggio “Socialismo liberale” di Carlo Rosselli. “G.L.” rivalutava i valori morali e dell’iniziativa individuale al servizio della comunità, sosteneva la possibilità di un passaggio pacifico al socialismo e la sussistenza di un’economia mista, pubblica e privata, si batteva in modo intransigente contro il fascismo. Il suo contributo alla Resistenza fu decisivo: 35.000 uomini in molte zone del Nord Italia, 1.800 caduti. Le formazioni gielliste furono seconde per numero solo alle formazioni garibaldine comuniste e di gran lunga prevalenti rispetto alla formazioni di altro colore politico. Da “Giustizia e Libertà” era nato, nel 1942, il Partito d’Azione. Ma le formazioni gielliste rifiutarono forme di indottrinamento, ed ebbero aderenti, a volte anche Comandanti, di orientamento politico diverso, oppure senza collocazioni politiche.

E’ il caso di Daniele Bucchioni: cattolico, poi democristiano, mai azionista, ma sempre giellista.

Il Partito d’Azione nacque a Spezia da un gruppo composto da Vero Del Carpio, Mario Foce, Mario Da Pozzo, Alfredo Contri, Lorenzino Tornabuoni, Cesare Godano, Vinicio Manfrini, e sostenuto da Giulio Bertonelli, un dirigente nazionale e ligure, che era nativo di Zignago. Un gruppo caratterizzato da uno straordinario attivismo, a cui va riconosciuto il merito di aver dato vita a una formazione partigiana che ebbe, nella Resistenza spezzina, un grande ruolo: occupò una vasta area tra Magra e Vara, con una consistente forza numerica e una efficiente organizzazione, e sopportò buona parte del peso della lotta. A Spezia va anche citata l’autodenominatasi “organizzazione clandestina militare patriottica”, che si trasformerà poi in SAP (Squadra di Azione Patriottica) e aderirà a “G.L.”: fu costituita, nella dirigenza, da elementi della Marina Militare. Il capo riconosciuto era il capitano Renato Mazzolani: catturato dalle brigate nere, seviziato e torturato al fine di estorcergli notizie e confessioni, per non parlare si tagliò le vene e si impiccò in cella. Gli fu concessa la Medaglia d’oro. Per ciò che riguarda, invece, le bande ai monti, “G.L.” ebbe la primogenitura in Val di Vara, insieme ai cattolici della “Beretta”, mentre contemporaneamente, nelle colline sarzanesi e santostefanesi, nascevano i gruppi garibaldini. All’origine ci fu l’attività del “Gruppo Bottari” a Vezzano, con Bottari e i tenenti sardi Piero Borrotzu e Franco Coni. Il gruppo si spostò poi a Torpiana di Zignago. La base principale della futura formazione la si coglie già qui: ex militari sbandati, studenti o giovani diplomati, molti contadini. Pochi impiegati e operai. Lo stretto legame tra la formazione e il territorio costituì un elemento di forza, perché favorì il rapporto e l’intesa con la popolazione e sostenne psicologicamente i combattenti. Fu l’elemento che mancò in parte ai garibaldini in Val di Vara, per la forte presenza di operai spezzini (diversa fu la composizione delle bande garibaldine della Val di Magra). A fine 1943 era già operante a Torpiana una banda di “Giustizia e Libertà” di circa 50 uomini, comandati da Vero Del Carpio “il Boia”, che diventò “Brigata d’Assalto Lunigiana” tra il febbraio e il marzo 1944: vi ritroviamo, oltre a Bottari, Borrotzu e Coni, anche lo spezzino Tonino Celle (“Tonino I”), Amelio Guerrieri (“Amelio”) di Valeriano, Ezio Grandis (“Ezio II) di Brugnato, Giovanni Pagani (“Giovanni”) di Pignone, Prospero Castelletto (“Baciccia”) di Camogli, Ermanno Gindoli (“Ermanno”) di San Benedetto, il nutrito gruppo calicese di Daniele Bucchioni (“Dany”) -fortemente radicato nel territorio, tanto che l’intera zona di Calice passò sotto il controllo partigiano dal giugno 1944-  e tanti altri che furono poi tutti protagonisti della Colonna di “G.L.” C’era chi aderiva esplicitamente al PdA, come Celle, Grandis e Castelletto, chi no: ma tutti, da Borrotzu a Coni, da Guerrieri a Bucchioni, aderivano pienamente al piano militare di una guerra di liberazione antifascista. “Amelio” e “Dany”, per esempio, erano di formazione cattolica, ma rifiutarono l’invito di don Carlo Borelli, sacerdote resistente, di lasciare “G.L.” per dar vita a un’autonoma formazione di ispirazione cattolica.

Possiamo quindi definire “Dany” un partigiano giellista e un partigiano cattolico. Non c’è alcuna contraddizione. La presenza di uomini e donne cattoliche in “G.L” fu molto forte. Le donne di casa Bertonelli (Virginia, Elisa e Giulia) dissero sempre di avere avuto come molla per aiutare i partigiani la loro fede cristiana. E Bianca Paganini di Beverino, donna simbolo della Resistenza e della deportazione a Spezia, scampata alla morte nei campi di sterminio a differenza della madre Amalia, era di “G.L” e di formazione e idee cattoliche: aveva assorbito le idee antifasciste dalla milizia del padre nel Partito Popolare.

Va detto che non mancarono i comunisti cattolici: basta leggere le “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”. “Muoio da comunista cristiano”, scrive alla mamma Jules Tagliavini, mentre il comunista Pietro Pinetti, vicecomandante di una Brigata garibaldina genovese, scrive alla mamma: “Ciò che ho fatto è dovuto al mio fermo carattere di seguire un’idea e per questo pago così la vita, come già pagarono in modo ancora più orrendo e atroce migliaia di seguaci di Cristo la loro fede”. E il comunista Pietro Benedetti scrive ai figli: “Dell’amore per l’umanità fate una religione”. Nelle Lettere si rinviene una tradizione religiosa, che riaffiora spesso inconsapevolmente: un’eredità che per secoli, e ancora nel Novecento, ha costituito un fondamentale legame di coesione sociale e di disciplina morale degli italiani.

Ma torniamo alla Colonna “Giustizia e Libertà”. Il libro di Giulivo Ricci “La Colonna Giustizia e Libertà” è la narrazione molto ben documentata di tutti gli episodi salienti della storia di “G.L.” nella IV Zona operativa: dal tragico rastrellamento dell’aprile’44, in cui morì eroicamente Borrotzu, alla riorganizzazione successiva, con la formazione, nel giugno ’44, di quattro compagnie della Brigata: la prima nel calicese comandata da “Dany”, la seconda nel madrignanese comandata da Gino Paita “Yanez”, la terza tra i Casoni e Beverone, al comando di “Amelio”, la quarta a Brugnato al comando di “Giovanni”.

Poi l’altro tragico rastrellamento, quello dell’agosto ’44, in cui, scrisse il Colonnello Mario Fontana, Comandante della IV Zona, “solo la Brigata Cento Croci offrì nei giorni 2,3,4 una resistenza organizzata battendosi valorosamente al passo delle Cento Croci e al monte Scassella; anche un reparto della Colonna Giustizia e Libertà resistette eroicamente ai Casoni contro forti colonne avversarie”: al comando c’era “Dany”. Ecco la testimonianza di “Dany”, raccolta nel mio “Eppur bisogna ardir”:

“Avevamo il terreno favorevole e duecento uomini abituati a combattere, decisi quindi di affrontare il nemico, e quando dissi ai miei uomini ‘se qualcuno non condivide è libero di andare’, tutti i partigiani mi risposero in coro ‘ti dimostreremo che abbiamo imparato’ dandomi piena fiducia”. Quando vide i tedeschi salire, “Dany” aspettò che arrivassero nei prati allo scoperto, lanciò una bomba a mano all’urlo “Deutschland a noi!” e diede ordine ai suoi uomini di sparare: “chi non morì fuggì verso le basi di partenza”. Qui i tedeschi rastrellarono Calice e fecero dei prigionieri. Provarono a risalire ma furono ricacciati, e riscesero in basso verso le piane. “Ma non sparammo perché il rischio era quello di uccidere anche le mucche al pascolo”, spiega “Dany”, “aspettammo che arrivassero ai Casoni per sparare e inseguirli fino a disperderli”. Nella notte, mentre i partigiani riposavano, “fummo avvisati che i tedeschi stavano risalendo, con i prigionieri fatti in gran parte durante il rastrellamento di Calice”. “Dany” decise di liberarli: l’operazione riuscì, i prigionieri furono tutti liberati, “la voce arrivò nei monti e in città, e in quel momento difficile, quando altre formazioni erano sbandate, diede fiducia agli antifascisti e demoralizzò i tedeschi, che misero una grossa taglia sulla mia testa”.

I nazifascisti subirono il primo insuccesso nel rastrellamento dell’8 ottobre ’44, che non scompaginò il dispositivo partigiano: il peso fu sostenuto dal Battaglione “Vanni”, garibaldino, e dal Battaglione “Val di Vara” di “Giustizia e Libertà”, al comando di “Dany”. Purtroppo nel combattimento cadde Gerolamo Spezia “Piero”, che meritò la Medaglia d’oro. Ecco ancora la testimonianza di “Dany”:

L’8 ottobre 2000 SS e 1000 fascisti delle Brigate Nere circondarono il fosso di Calice, ma usammo il solito schema e i nemici persero oltre 100 uomini. Purtroppo, accanto a me, morì Spezia, mio fedele caposquadra, poi Medaglia d’Oro. I tedeschi lanciarono una cortina fumogena per impedirci di vederli e di colpirli, ma in questo modo salvarono anche me, perché riuscii a fuggire e a raggiungere i miei compagni”.

Nel frattempo si era costituita la Colonna, comandata da Del Carpio, mentre Godano (“Gatto”) era il Commissario politico; sopra le Compagnie, diventate sei, stavano due Battaglioni: quello “Val di Vara” al comando di Orazio Montefiori (“Martini”), con “Dany” vicecomandante e Ezio Giovannoni (“Ezio I”) Commissario politico; e il Battaglione “Zignago” al comando di Gindoli, con Giovanni Ceragioli (“Vas”) Commissario politico. La Colonna diede vita a numerose azioni, in cui si distinse, come miglior sabotatore di ponti, e poi come protagonista della difesa di Brugnato, “Giovanni”. Anche “Dany” e “Amelio” erano due ottimi ufficiali, spesso in contrasto tra loro: “di fronte -scrive Ricci- a un temperamento più riflessivo, più fermo nelle determinazioni adottate, più incline ad attribuire importanza anche ai lati formali dell’organizzazione, quale quello di ‘Dany’, stava un ‘Amelio’ molto coraggioso, estroso, ma anche insofferente di una troppo stretta disciplina e talora incurante delle forme”. Non a caso, nel dopoguerra, “Dany” divenne generale, mentre “Amelio” fu semplicemente Amelio: entrambi grandi uomini e Comandanti, ma di temperamento molto diverso.

Poi venne il grande rastrellamento nazifascista del 20 gennaio ’45. Il pensiero va, nel ricordo del contributo di “G.L.”, innanzitutto al sacrificio di “Giovanni”. “Giovanni”, era il Comandante della IV Compagnia. Il rastrellamento lo colse su una linea abbastanza bassa. La resistenza a Cornice di Sesta Godano e a Serò di Zignago durò tutta la giornata, impegnando i reparti garibaldini dei Battaglioni “Vanni”, “Gramsci” e “Matteotti-Picelli” e la IV Compagnia di “G.L.” “Giovanni” non concordò con l’ordine del Comando della IV Zona operativa di sganciarsi verso il Gottero e Fontana Gilente, ma invitò i suoi uomini a scavare tane per nascondersi e nascondervi armi, munizioni e viveri. Questo orientamento si fondava soprattutto sul fatto che quasi tutti i patrioti giellisti erano gente del luogo, che aveva continuato ad abitare nelle proprie case. E poi sul fatto che, dopo aver combattuto tutta la giornata, la prima mattina del 21 le vie di accesso al Gottero erano ormai occupate dal nemico. “Giovanni” raggiunse Vezzola e si portò ai piedi del monte Dragnone con nove uomini, più tre civili che si erano uniti. Con lui c’erano, tra gli altri, due ufficiali di “G.L.”, Ezio Grandis “Ezio II”, e Giuseppe Da Pozzo, e il caposquadra Vittorio Brosini “Bambin”. Il rifugio era una grotta alle falde del Dragnone. Il 22 il numero dei rifugiati salì a 15, con altri tre civili. Secondo il racconto di uno dei protagonisti sopravvissuti, la staffetta Virginio Lovera “Leone”, la notte del 22 i patrioti si destarono all’improvviso e si accorsero che il civile di guardia era ferito. Cominciò la sparatoria, poi “Giovanni” impose la resa ai suoi, per salvare i civili, a costo della vita. I 9 partigiani si diedero prigionieri ed ebbero la garanzia verbale che sarebbero stati trattati come prigionieri di guerra e che i civili sarebbero stati lasciati liberi. In realtà i partigiani furono portati al XXI Reggimento di Fanteria e poi trucidati nei pressi delle loro abitazioni, perché tutti potessero vedere. Pagani e Grandis furono uccisi alla Chiappa, Da Pozzo a Monterosso, Brosini a Stagnedo di Beverino. Il loro sacrificio non fu vano: i civili furono risparmiati. Il conferimento della Medaglia d’oro per Giovanni Pagani, come proposto dal Comitato Unitario della Resistenza, è davvero un gesto doveroso.

Va ricordato anche il sacrificio, a Frandalini di Adelano, di dodici patrioti giellisti, quasi tutti di Vernazza. Un’intera generazione di quel paese venne cancellata: erano tutti giovanissimi, tranne uno, Renato Perini, che era il padre di due degli uccisi, fratelli gemelli. Compattezza e resistenza offrirono anche le brigate garibaldine, che nell’agosto ’44 erano crollate per prime; mentre la “Cento Croci”, che ad agosto fu decisiva nell’impedire il disastro totale, a gennaio ebbe una condotta impacciata e incerta, e i suoi dirigenti furono fatti prigionieri. I rapporti tra brigate, insomma, si erano rovesciati. Tornando a “G.L.”, nel rastrellamento di gennaio morì anche “Baciccia” (la lapide è in piazza Colombo, di fronte al mare di Camogli, che si domina dalla calata a lui dedicata): “eccezionale e singolare personaggio, camoglino dallo stupefacente coraggio, ribelle e antifascista da sempre, staffetta, informatore, guida, combattente, partigiano, intendente di brigata, camminatore infaticabile tra Genova e il Picchiara, sempre allegro, pronto a ogni fatica” (così lo descrive il Ricci). Fu catturato dai tedeschi, riuscì come altre volte a fuggire, ma cadde sul ghiaccio e gli si spezzò una gamba: l’urlo di dolore attrasse i tedeschi che lo uccisero mentre stava per sollevarsi.

Dopo gennaio i partigiani erano all’attacco e colpivano in continuazione, scendendo in pianura. Durante una di queste azioni, il 12 aprile, dopo aver fatto esplodere la rupe della curva della Rocchetta mentre transitava una colonna tedesca, vennero uccisi dai tedeschi superstiti Ermanno Gindoli, Comandante del Battaglione “Zignago”, Alfredo Oldoini (“Alfredo”), Comandante della VI Compagnia, e Oronzo Chimenti (“Miro”), Comandante di plotone. Lo scopo era stato raggiunto, ma a quale prezzo! Fu un dolore incontenibile. Anche se la vittoria di aprile era ormai vicina. Nel momento in cui la VI Compagnia si metteva in marcia per andare a liberare la città, il canto dei partigiani riferiva al nome dei caduti l’attesa della prossima definitiva avventura:

E’ la Compagnia d’Alfredo
è d’Ermanno il Battaglion
è Miro che comanda
si va giù si va giù si va giù.

“Dany” fu incaricato di liberare Aulla. Alla liberazione di Spezia contribuì il Battaglione “Gindoli”, già “Zignago”, al comando di “Amelio”, che sconfisse i residui nazifascisti a Montalbano.

“Dany” contribuì anche allo sminamento di Spezia. Ecco la testimonianza di Umberto Bellavigna “William”, che fu nel Battaglione garibaldino “Picelli” comandato da Dante Castellucci “Facio” fino alla sua tragica morte. Poi, dopo varie peripezie, operò nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica”:

“Un giorno un sappista ci offrì la possibilità di incontrare una donna sua conoscente, che a breve avrebbe avuto un incontro con un responsabile partigiano per favorire il passaggio tra le fila dei partigiani del suo compagno sottufficiale tedesco che comandava il gruppo minatori. Il contatto avvenne in un portone di via Prione. Andò tutto bene e dopo qualche giorno ci incamminammo tutti insieme verso Calice. Ero di nuovo felice di tornare a respirare aria di libertà”. “William” accompagnò la donna da “Dany”, che così ricorda l’episodio, importantissimo:

“I tedeschi avevano minato, con potenti cariche di esplosivo, tutte le strade adducenti a Spezia, il porto e i vari stabilimenti militari e civili, nonché Lerici e Portovenere: sarebbe stata una distruzione immane. Il comando venne a conoscenza che il sottufficiale comandante del plotone che si occupava delle mine aveva una relazione con una donna spezzina; si cercò quindi di entrare in contatto con l’amica del tedesco. Si chiamava Edelmira Sanfedele, abitava in via del Prione”.

Giunto a Calice, con la donna, con “William” e un suo compagno, il sottufficiale mostrò la pianta del golfo di Spezia, Lerici e Portovenere: “Un quadro impressionante -continua “Dany”- erano circa tremila ordigni, molti di grande potenza, innescati con detonatori elettrici e comandati a distanza. Fu concordato che il sottufficiale sarebbe tornato in città ed avrebbe tolto gli inneschi alle mine”. Cosa che fece. Il resto fu sminato dopo la Liberazione, grazie a quella preziosa mappa.

Un’ultima notazione: la vicenda spezzina di “G.L.” si comprende pienamente solo se ne rinveniamo il filo conduttore in Cesare Godano “Gatto”: per la sua formazione culturale e politica, per il suo ruolo nel PdA e nella Colonna egli fu forse la personalità più rappresentativa del giellismo. Lo dimostra molto bene il suo bel libro “Paideia ‘44”, il racconto della sua vita da ragazzo, fino all’esperienza di Commissario politico della Colonna. Cesare si formò al liceo Costa, dove lasciò un segno profondo su di lui il docente di storia e filosofia Aldo Ferrari: antifascista, si suicidò quando i fascisti vennero a prelevarlo a casa. Come Mazzolani, non voleva rischiare di tradire i compagni in seguito alle torture. All’Università Cesare fu allievo di Guido Calogero, filosofo, esponente del liberalsocialismo. Poi fu ufficiale di artiglieria in Jugoslavia. Esperienze che lo portarono alla maturazione, innanzitutto morale: “Cosa ci vuole dunque? Una rivoluzione forse, e prima una rivolta. Anzitutto nella propria interiorità… Bisognava andare a cercare il fondo delle cose, a frugare nel nucleo stesso dell’umanità, per estrarne una visione della vita totalmente opposta a quella del fascismo e del nazismo. La rottura con il passato doveva essere assolutamente radicale… Da tutto nasceva un’ansia, il bisogno di fare qualcosa, di capire sì, ma appena capito, se si credeva di aver capito, di passare all’azione”. Cioè “opporsi in ogni modo, anche con la violenza, alla guerra e al fascismo”. Aderì al PdA e scelse, nel marzo ’44, la via dei monti, a Torpiana: “C’era da inventare una nuova guerra, non un gioco da ragazzi”. Fu tra i primi a capire che alle bande occorrevano “comando, ordine, disciplina” e le regole fondamentali della guerriglia: le basi su cui, nel luglio ’44, si costituì il Comando Unico delle formazioni della IV Zona. “Gatto” divenne, dopo il rastrellamento di agosto, Commissario politico della Colonna, incarico che ricoprì fino a pochi giorni prima della Liberazione, quando fu nominato Segretario provinciale del PdA. Il partito non resse alle prove della democrazia, raccolse pochi voti alle elezioni e si sciolse. Gli ex partigiani giellisti votarono in buona parte Dc, Pci, Psi… Ma la Colonna, senza la quale la Resistenza spezzina sarebbe stata più debole e anche meno plurale, nacque, non va mai dimenticato, grazie soprattutto al grande attivismo dei capi del PdA. Che poi portarono in altri partiti democratici la loro preziosa eredità: Godano, per esempio, divenne dirigente del Psi e Vicesindaco della Spezia.

Concludo riportando i versi dell’inno del Battaglione “Val di Vara” della Colonna “Giustizia e Libertà”:

Canta mitragliatrice, salviam la libertà
Dio di marciar ci dice,
nessun ci fermerà.

Noi la morte l’abbiamo in agguato,
ci tradiscono i nostri fratelli,
siam soldati, ci chiaman ribelli,
occhio attento, affilato il pugnal.

Ma la Patria sa ben chi noi siamo,
che noi siam le avanguardie fedeli,
lo giuriamo al rispetto dei cieli:
questo è il giuro del nostro ideal.

In questi tempi di passioni tristi, non si può che tornare all’idealismo di allora. Tutto deve ripartire da lì: dalla giustizia, dalla libertà, dalla fede come speranza.

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