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“Il fenomeno migratorio e la sfida dell’incontro e della solidarietà” Università della Tre Età – Lerici 14 ottobre 2016 Relazione di Giorgio Pagano

a cura di in data 25 Febbraio 2017 – 21:25

IL FENOMENO MIGRATORIO E LA SFIDA DELL’INCONTRO E DELLA SOLIDARIETA’
Università della Tre Età- Lerici
14 ottobre 2016
RELAZIONE DI GIORGIO PAGANO

Premessa
Lo scopo della conferenza è spiegare che i flussi migratori contemporanei non sono un evento eccezionale, una contingenza del momento, un’emergenza. In realtà il tempo profondo dell’evoluzione umana insegna il contrario: il fenomeno migratorio umano è strutturale e costitutivo della nostra identità di specie. Le specie umane migrano da sei milioni di anni: lo hanno fatto prima in Africa, poi ovunque. Il risultato è che il quadro delle popolazioni umane si è arricchito: fughe, ondate, convivenze, selezione naturale, sovrapposizione tra flussi successivi, forse conflitti tra diverse specie umane, fino a Homo sapiens. Gli esseri umani sono evoluti anche grazie alle migrazioni: le migrazioni sono state cioè un fattore evolutivo fondamentale. Migrare ha rappresentato una strategia essenziale di adattamento all’ambiente. Siamo migranti da sempre, pur con modalità diverse, sempre più consapevoli. Migrare era spesso una forzatura imposta dal clima e dalla distribuzione della biodiversità. Poi, dalla fine dell’ultima glaciazione, con la svolta della coltivazione e dell’allevamento, Homo Sapiens non si è limitato ad adattarsi all’ambiente, lo ha anche trasformato. Ma non ci siamo emancipati dai vincoli ecologici: anche oggi le costrizioni che spingono a migrare sono sia politiche, sociali ed economiche che ambientali. Questa è una delle ragioni per cui va garantita la libertà di migrare, soprattutto nel momento in cui i cambiamenti climatici, oltre che le emergenze politiche, sociali ed economiche, provocano flussi forzati. Il che significa pure, ovviamente, che va tutelato il diritto di restare nella terra in cui si è nati, con politiche di prevenzione delle migrazioni forzate. Il fenomeno migratorio è così radicato nella storia che può essere governato con una visione lungimirante e con il senso alto di una politica intesa come incontro, solidarietà, stare insieme.

Gli albori
La storia intricata delle migrazioni cominciò in Africa intorno a sei milioni di anni fa, quando gli ominini si staccarono dall’antenato comune con gli scimpanzé, diventando a poco a poco bipedi. Ci fu probabilmente un antichissimo spostamento dall’Etiopia verso occidente lungo la fascia subsahariana. Sudafrica, Africa orientale, Corno d’Africa, regione del lago Ciad: è in quest’area che si sono svolti i primi due terzi dell’evoluzione umana e da quest’area partiranno le espansioni umane fuori dall’Africa. Una molteplicità di specie ha coabitato in Africa da sei milioni fino a due milioni di anni fa. Da quel crogiolo complicatissimo di forme, distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo, non conosciamo né quando né dove. Sappiamo che molti generi di ominini si sono contesi il territorio e hanno migrato fino a due milioni di anni fa. Poi avviene una svolta, e la mobilità degli uomini evolve. E’ l’epoca delle continue oscillazioni glaciali, della lotta per la sopravvivenza per tutte le specie ominine dell’Africa, dell’inizio della prevalenza delle forme del genere Homo, il cui cervello comincia a crescere. In questa fase, per la prima volta nella storia un ominino valica i confini dell’Africa e dà inizio a un processo di espansione globale inarrestabile. Ritroviamo i suoi resti in Georgia, in Medio Oriente, lungo le coste dell’Asia e nel Pakistan. A partire da 1,5 milioni di anni fa è in Cina e nell’isola di Giava. E rimane anche in Africa. I gruppi restano isolati, nascono le sottospecie. Intorno a un milione e mezzo di anni fa la prima grande disseminazione è compiuta: gli studiosi la definiscono Out of Africa. In 100.000 anni dall’Africa gli ominini raggiungono la Cina: non con una intenzione consapevole, ma perché il clima cambia e tutto si sposta: le fasce di vegetazione, le faune, gli ominini. Intorno a 1,2 milioni di anni fa gli ominini africani raggiunsero anche l’Europa. I primi “europei” quindi non fummo certamente noi Homo sapiens. I più antichi insediamenti umani noti si ritrovano in Spagna settentrionale, e risalgono appunto a 1,2 milioni di anni fa.

L’Homo sapiens
La nostra specie, Homo sapiens, compare ancora una volta in Africa, in Etiopia, circa 200.000 anni fa: è la specie più migratrice di tutte, la più espansiva, la più veloce, la più invasiva. Lo schema si ripete. Si era ripetuto una seconda volta, 600.000 anni fa, con l’Homo heidelbergergensis, che partì dall’Africa e raggiunse l’Europa e la Cina. La terza Out of Africa, protagonista l’Homo sapiens, partì dall’Eritrea: fu la conquista africana del mondo. E’ significativo che tutte e tre le Out of Africa abbiano seguito gli stessi percorsi geografici: partenza dal Corno d’Africa, il Medio Oriente crocevia di smistamento verso il Caucaso e verso l’Europa. I paleoclimatologi pensano che le evoluzioni del Sahara, o deserto inospitale o prateria erbosa, siano state responsabili di questi spostamenti. Successivamente, circa 80.000 anni fa, in concomitanza con una fase fredda particolarmente difficile, gli Homo sapiens si spinsero lungo le coste dell’Asia, e probabilmente in Australia. Poi, forse a causa di una supereruzione in Indonesia, 75.000 anni fa, la popolazione globale della nostra specie si ridusse drasticamente e trovò rifugio soltanto e nuovamente in Africa, da cui uscì ancora una volta, più stabilmente, verso gli altri continenti, 70-60.000 anni fa. 50-45-000 anni fa Homo sapiens fece il suo ingresso per la prima volta in Europa. Chiunque abiti oggi in Europa (come nel resto del mondo) ha origini africane. Poi ci furono le mutazioni genetiche connesse allo schiarimento della pelle. Ma ogni europeo di oggi ha un antenato di colore vissuto non più di 2000 generazioni fa. L’intera popolazione umana è discesa da un piccolo gruppo iniziale di poche decine di migliaia di individui, originari dell’Africa subsahariana. All’arrivo dei primi Homo sapiens, l’Europa e l’Asia erano già abitate da altre specie umane, derivanti dalle precedenti ondate. La più nota è l’uomo neanderthalensis, discendente da una forma africana di homo heidelbergensis. Tra noi e loro vi fu una lunga coesistenza, poi la nostra specie prevalse. Homo sapiens migra non solo forzatamente per clima, guerre, carestie, malattie. Per la prima volta compaiono i navigatori, che prima di tutto sono pescatori. Homo sapiens diventa cosmopolita perché ha un vantaggio: una migliore capacità migratoria e migrazioni più intenzionali. Grazie a questo vantaggio arriva in ogni angolo della terra, tranne pochissime aree, le isole degli oceani scoperte dalle esplorazioni moderne nel XVI secolo.

Le migrazioni neolitiche
Quando i ghiacci iniziarono a ritirarsi, la clemenza del clima sprigionò nuove possibilità: l’agricoltura, l’allevamento, l’incremento demografico. Da questo processo prese avvio una nuova fase delle migrazioni umane, che dura ancora fino a oggi. Homo sapiens cominciò a risiedere, a essere sedentario, ad avere una dimensione comunitaria. E cominciò a migrare non solo per fuggire da eventi geofisici estremi e da cambiamenti del clima ma anche per esplorare, per cercare contesti migliori in cui vivere. Cominciò così la colonizzazione dei suoli. Dal neolitico le migrazioni si modificano e si incrociano con la storia e la geografia delle guerre umane. Le migrazioni diventano un fenomeno non solo forzato ma libero, e in questo caso sempre meno pacifico. E alle guerre si associano le conquiste e le schiavitù.

Le migrazioni moderne
Una data periodizzante della storia moderna delle migrazioni è il 1492: l’anno del viaggio di Colombo. L’Europa da terra di immigrazione diventa blocco di Stati di potente capacità migratoria. Individui europei solcarono gli oceani raggiungendo presto le Americhe, stupendosi di incontrare ovunque Homo sapiens: milioni di donne di donne e uomini nativi perirono di spada o di epidemie. Questa volta è Out of Europe: la conquista materiale del mondo da parte degli Stati europei. Dal XVI secolo le migrazioni avvengono soprattutto via mare. Nasce il colonialismo. E nelle colonie servono gli schiavi: la deportazione di africani dell’Africa subsahariana, come lavoratori coatti ridotti in schiavitù, è la più grande migrazione intercontinentale forzata mai esistita. 10 milioni di africani, soprattutto dalle coste occidentali, uomini e giovani, in circa tre secoli vengono deportati, molti altri vengono uccisi. Dalla fine del Settecento nascono gli Stati Uniti d’America, che operano come l’Europa alla conquista del mondo: si configura l’Occidente, potente e colonizzatore.

Le migrazioni contemporanee
Nei due secoli successivi l’economia dell’Occidente, aiutata dalle armi, globalizza il mondo. E si afferma il fenomeno delle migrazioni individuali: si va a cercare all’estero un reddito che non si trova nel proprio Stato (per poi in parte rimetterlo in patria). E’ Out of Europe 2.

Le migrazioni oggi: i migranti rifugiati
Nel 2015, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, 59,5 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case. Erano 51,2 milioni un anno prima. 37,5 milioni dieci anni fa. L’accelerazione principale è iniziata nel 2011, quando è iniziata la guerra in Siria. Ma nel mondo ci sono almeno 15 conflitti militari. E’ l’esodo più grande dalla Seconda guerra mondiale. Sono persone che partono a rischio della vita, tanti di loro non ce la fanno, muoiono prima. I veri e propri refugees, persone con lo stato di rifugiato, sono 19,5 milioni. Pochi rispetto a coloro che sono fuggiti.

Le migrazioni oggi: i migranti ambientali
All’inizio del 2015 l’International Organization for Migration (organizzazione con 149 Stati membri) ha creato una divisione specifica su “Migrazioni, ambiente e cambiamento climatico”. Da circa trent’anni si utilizza l’espressione “migrazioni ambientali” per distinguerle da quelle “economiche”, anche se tutto è intrecciato, come sempre nella storia. Sono le migrazioni forzate dovute agli eventi climatici, all’inquinamento, alla siccità: hanno riguardato dal 2008 al 2014 oltre 185 milioni di persone. Saranno oltre 250 milioni nel 2030. E’ indilazionabile riconoscere loro lo status di climate refugees, con politiche appropriate di prevenzione e assistenza, mitigazione e adattamento. Oggi queste persone non possono essere riconosciute rifugiati, vengono respinte o diventano clandestine. La distinzione tra rifugiati (da guerre e persecuzioni politiche), migranti economici (che fuggono dalla povertà) e migranti ambientali non regge. Tutti vanno accolti, tutti vanno aiutati a tornare nel proprio Paese. E nei confronti di tutte le migrazioni forzate bisogna agire per prevenire e per impedirle. Perché restino solo le migrazioni libere. Ma per questi fini serve una politica lungimirante e solidale, di cui purtroppo si vedono scarse tracce.

La sfida dell’incontro e della solidarietà
Le guerre, la fame, il cambiamento del clima si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Purtroppo, oggi, questa volontà è molto scarsa. Che fare, allora? Intanto non possiamo che accogliere i profughi dalle guerre e i migranti economici e ambientali, con un impegno dell’Europa che finora è mancato. Dobbiamo farlo perché nessuno di loro, per ora, può tornare a casa sua: la loro casa non c’è più. Dobbiamo dar vita a piani formativi e per il lavoro che siano a loro utili, per quando potranno rientrare nel loro Paese e tornare ad avere una loro casa. Piani formativi e per il lavoro che dovrebbero riguardare tutti i deboli e tutti i poveri, migranti e italiani: altrimenti si scatenerà sempre più quella “guerra tra poveri” che alimenta il razzismo. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli. Abbiamo bisogno delle stesse cose: casa, formazione, lavoro, salute… Tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare per tutti: a patto di sconfiggere l’austerity neoliberista e di tornare a una politica di investimenti pubblici. Un piccolo esempio, molto vicino a noi, che ci indica che le cose possono cambiare, che non è vero che “non c’è un’alternativa”: la “Banca del lavoro” alle Cinque Terre, giovani italiani e migranti che tornano alla Terra e supportano i contadini nelle attività agricole e di manutenzione e recupero dei terrazzamenti. Se creassimo quello che nel 1946 Ernesto Rossi, uno degli autori del Manifesto di Ventotene, definì “esercito del lavoro”, e impegnassimo giovani italiani e migranti nell’opera di cura del territorio, ne guadagnerebbero l’economia, l’ambiente, la qualità della vita sociale e la sicurezza dei cittadini, troppo spesso messa a rischio dall’incuria del territorio. Ma un ulteriore beneficio, forse anche maggiore, sarebbe di ordine morale e culturale. Perché, come scriveva Ernesto Rossi, «il servizio nell’esercito del lavoro farebbe sentire a ogni individuo in modo più immediato i rapporti di solidarietà che lo avvincono agli altri membri del consorzio civile”.
All’opera di accoglienza e di integrazione di chi è costretto a fuggire dobbiamo accompagnare l’opera per eliminare alla radice i fenomeni che sono alla base di questa fuga: le guerre, la fame, il cambiamento del clima. E’ il compito della cooperazione internazionale, di cui ci si occupa troppo poco, in termini di attenzione politica e di finanziamenti. Dobbiamo evitare di concepire la cooperazione come l’ha concepita l’Unione europea con il suo patto scellerato con la Turchia: io ti pago perché tu ti tenga i migranti, non importa come e dove. Il rischio è quello di dare soldi a classi dirigenti corrotte e che non rispettano i diritti umani, solo per misure di sicurezza e di polizia. Era la logica del nostro accordo con il dittatore libico Gheddafi, che in cambio di soldi teneva in carceri disumane i migranti. Ma i dittatori sono inevitabilmente destinati a cadere, e i nodi a venire inevitabilmente al pettine. Il rischio è evidente: che la cooperazione internazionale si trasformi in un sostegno non ai popoli, per uno sviluppo sociale più equo, ma ai governi e al loro potere, in cambio di fermare le persone che scappano dai regimi. La cooperazione internazionale deve invece servire a costruire, in partenariato con gli Stati e le organizzazioni della società civile dei Paesi poveri, la pace, la democrazia, lo sviluppo sostenibile, la giustizia sociale e ambientale.

Nota: nella stesura di questo testo mi sono state utili molte letture; ne cito due in particolare: “Libertà di migrare” di Valerio Calzolaio e Telmo Pievani e “Storia del continente africano” di Josè do-Nascimento.

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