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Alta scuola di economia e relazioni internazionali. Università Cattolica di Milano.
Conflict dimension in the different areas of intervention.The case of Arab-Israeli conflict

a cura di in data 22 Giugno 2011 – 14:03

Intervento di GIORGIO PAGANO

Presidente di Funzionari senza Frontiere

Buon pomeriggio a tutti e grazie per l’invito.
Innanzitutto mi presento: sono Giorgio Pagano, sono stato sindaco della mia città, La Spezia, dal 1997 al 2007. Durante il mio secondo mandato l’Amministrazione Comunale si è impegnata in un progetto di cooperazione decentrata con la città palestinese di Jenin, al quale abbiamo fatto seguire un patto di gemellaggio. Abbiamo poi stretto un patto con la città israeliana di Haifa, in vista di un auspicabile patto tra tutte e tre le città. Gli ultimi miei atti da sindaco sono stati la Conferenza europea per la pace in Medio Oriente, tenutasi alla Spezia con la partecipazione di Haifa, Jenin e delle città europee che hanno relazioni con Haifa e Jenin; e l’inaugurazione, a Jenin, del Centro giovanile Sharek, a conclusione della prima fase del progetto. In questo modo La Spezia è stata coerente con la sua storia: siamo la città di Exodus, il porto da cui salparono per Israele gli ebrei sopravvissuti alla Shoah. Abbiamo quindi, come porta sul Mediterraneo (in Israele La Spezia è conosciuta come Porta di Sion), una missione: il dialogo tra culture e religioni diverse, la pace tra i popoli. Sono stato molte volte in Terra Santa: è una terra che mi ha segnato, perché coinvolge e alimenta la passione politica, l’impegno a fare qualcosa in prima persona. Ho deciso, terminata l’esperienza di sindaco, di impegnarmi nel campo della cooperazione internazionale: sono stato delegato nazionale dell’Anci (Associazione nazionale dei Comuni) per la cooperazione decentrata, poi ho seguito, per conto dell’Unione europea, nell’ambito del progetto “Stream Cities”, il Piano strategico della città di Betlemme, in Palestina. Nel frattempo ho conosciuto l’Africa, e mi sono impegnato nel progetto dell’Anci “Municipi senza frontiere” e nel progetto, collegato, delle Nazioni Unite e della Regione Toscana “Euro African Partnership for decentralised governance”. Da queste esperienze è nata l’associazione che presiedo, Funzionari senza Frontiere, che si occupa di accompagnare e sostenere i progetti di decentramento amministrativo in Africa, aiutando i nascenti Comuni africani a crescere e a rafforzarsi. Nel contempo ho continuato a seguire il progetto della Spezia a Jenin, del quale si è appena conclusa la seconda fase: l’associazione culturale che presiedo alla Spezia, Mediterraneo, è impegnata, con altre associazioni della città, nella partnership con le associazioni della società civile di Jenin.
Il conflitto del quale vi parlerò oggi è il conflitto israelo-palestinese. Qualche mese fa il quotidiano israeliano Haaretz ha posto al grande scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua questa domanda: come mai non si è ancora arrivati a una pace tra israeliani e palestinesi? La domanda è seria e inquietante per due ragioni: in primo luogo il conflitto israelo-palestinese è uno dei più prolungati dell’epoca moderna. Se ne fissa l’inizio all’avvio della colonizzazione sionista della terra di Israele, negli anni ’80 del XIX secolo: questo scontro sanguinoso prosegue ormai da 130 anni. In secondo luogo non si tratta di una contesa marginale in un luogo remoto, ma di una controversia costantemente al centro dell’interesse internazionale. L’accordo è nell’interesse della sicurezza mondiale ed è la priorità assoluta per la pace: perché la questione israelo-palestinese costituisce, anche dal punto di vista simbolico, la questione centrale del rapporto tra mondo arabo e Occidente. Negli ultimi 45 anni gli organismi internazionali, i Presidenti degli Stati Uniti, i primi ministri europei e di tutto il mondo hanno cercato di portare queste due piccole nazioni all’intesa, senza riuscirci. Qual è, si interroga Yehoshua, il “nocciolo duro” della controversia “refrattario alla pace?”. La sua risposta è convincente, ve la riporto di seguito:
“Il conflitto israelo-palestinese non giunge ad una soluzione perché non ne è mai esistito uno simile nella storia umana. Non v’è infatti alcun precedente al fenomeno di un popolo che dopo aver perso l’indipendenza più di duemila anni fa ed essere stato disperso tra le genti abbia deciso, in seguito a circostanze interne ed esterne, di tornare nella sua antica patria e di ristabilirvi una propria sovranità. Per questo il ritorno a Sion è considerato da tutti un evento unico nella storia umana. Quindi anche i palestinesi, e gli arabi di Israele, sono costretti ad affrontare un fenomeno unico, come nessun altro aveva fatto prima di loro”.
Lo scrittore così prosegue:
“Agli inizi del XIX secolo risiedevano in terra di Israele 5000 ebrei e 250.000 o 300.000 arabi. All’epoca della Dichiarazione Balfour, nel 1917, c’erano 50.000 ebrei e 550.000 palestinesi. Nel 1948 gli ebrei erano 600.000 e i palestinesi 1.300.000. Il popolo ebraico si è quindi raccolto rapidamente in questa regione senza avere l’intenzione di espellere i palestinesi (e di certo non di annientarli) ma nemmeno di integrarli come avevano fatto altri popoli con i residenti locali. In questa parte del mondo è avvenuto qualcosa di originale e di unico nella storia dell’umanità: un popolo è arrivato nella patria di un altro per cambiarvi l’identità, sostituendola con una nuova, ma antica.”
Yehoshua così conclude:
“Alla base del conflitto israelo-palestinese non vi è perciò una questione territoriale, come nel caso di tante altre controversie tra nazioni. Vi è piuttosto uno scontro sull’identità nazionale dell’intera patria, di ogni sua pietra e di ogni suo angolo. Questo contrasto profondo crea una costante e profonda sfiducia tra i due popoli impedendo una possibile soluzione del conflitto. Sarebbe possibile risolvere questo scontro senza cadere nella trappola di uno Stato binazionale? La mia risposta è sì”.
Yehoshua suggerisce quindi la soluzione dei due Stati, non quella binazionale. Prima di affrontare questo punto, vorrei tornare sull’unicità della tragedia. Lo faccio con le parole di un altro grande scrittore israeliano, Amos Oz:
“Quando si discuteva di colonialismo era facile individuare i buoni e i cattivi. Ma il conflitto israelo-palestinese non è un film western, è una tragedia. Una tragedia nell’antica accezione del termine: lo scontro tra due facce della giustizia. Gli arabi palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la loro patria. Non hanno altra patria nel mondo. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché per migliaia di anni non è esistito un altro Paese in cui gli ebrei, come nazione, potessero sentirsi in patria. Come individui sì, ma come nazione gli ebrei non hanno avuto altra patria che Israele. Così né i palestinesi né gli israeliani hanno una altro posto dove andare. Poiché non c’è modo di costringerli a diventare una famiglia felice, la piccola abitazione di queste due famiglie infelici deve essere divisa in due appartamenti ancor più piccoli in cui possano vivere come vicini di casa. E’ tutto così dolorosamente semplice, e sarà questa la realtà. Perché non esiste altra possibilità”.
Nel suo bellissimo libro “Storia d’amore e di tenebra” Amos Oz ha definito quello israelo-palestinese come “lo scontro delle due ragioni”: due diritti legittimi, che vanno entrambi riconosciuti. Con altre parole, lo stesso concetto è espresso dal  musicista israeliano Daniel Barenboim, il grande pianista e direttore d’orchestra israeliano che ha voluto il passaporto palestinese e ha fondato con l’intellettuale palestinese Edward Said la West Eastern Divan Orchestra, dove suonano fianco a fianco musicisti arabi e israeliani: “Il conflitto israelo-palestinese -scrive Barenboim- è un conflitto tra due popoli che sono certi di avere un diritto storico, filosofico, esistenziale a vivere nella stessa terra. Per questo motivo la soluzione non può essere militare: israeliani e palestinesi sono condannati a vivere insieme. Entrambe le parti devono riconoscere di aver sbagliato, e non incolparsi a vicenda”.
Per superare il conflitto serve, allora, quello che due intellettuali, uno palestinese, Ali Rashid, l’altro ebreo, Moni Ovadia, hanno definito “l’avvio di un processo di riconoscimento reciproco, del dolore dell’altro in primo luogo, che è il primo passo verso la riconciliazione”. Insomma, il conflitto è il non riconoscimento dell’altro.
Bisogna lavorare dentro questo conflitto, per superarlo. Ce lo insegna un piccolo manuale di storia, “La storia dell’altro”, adottato in molte scuole israeliane e palestinesi: settecento ragazzi e una dozzina di insegnanti israeliani e palestinesi hanno scritto insieme le loro due versioni della storia del ‘900, quella che per i palestinesi è una storia di conquista di cui sono vittime e che per gli israeliani è storia di un “ritorno”. Con un obbiettivo: essere consapevoli dell’esistenza e del diritto dell’altro e darsi la possibilità di conoscerlo meglio. Abbattere non solo il Muro di cemento costruito dagli israeliani ma anche il muro interiore, che impedisce le relazioni tra le persone.
Sono di estrema rilevanza, quindi, tutte quelle esperienze, di singoli o di organizzazioni, che si sottraggono a un processo di “disumanizzazione” del nemico e di se stessi, e operano concretamente per riaffermare la priorità dell’essere umano sull’odio e la vendetta. Per avviare un processo di riconoscimento reciproco, comprendere il dolore dell’altro e la sua domanda di giustizia, riconoscere la propria responsabilità per il dolore e l’ingiustizia che gli tocca di vivere. Un’esperienza significativa è quella dei Parents Circle-Families Forum, che riunisce circa 500 famiglie israeliane e palestinesi che hanno subito gravi lutti familiari a causa del conflitto e operano per il dialogo e la riconciliazione, soprattutto con incontri nelle scuole e l’attivazione di una linea telefonica gratuita, Hello Peace, e di un sito web, che permettono a israeliani e palestinesi di comunicare con persone “dell’altra parte”. Vorrei citare, poi, le organizzazioni di medici e di psicologi, che stanno lavorando insieme per rendere le conseguenze del conflitto più sopportabili. E una figura emblematica, che è riuscita a superare l’odio e a percepire l’umanità del nemico, come Ismail Kathib, meccanico di Jenin. Lo conobbi nel 2006, a casa sua. Pochi mesi  prima suo figlio dodicenne Ahmed era stato ucciso dagli israeliani. Ismail e la moglie decisero di donare gli organi a cinque bambini israeliani. Due anni dopo Ismail ha voluto incontrare questi bambini, per cercare in ognuno dei loro gesti e sorrisi un’eco di Ahmed. Questo viaggio attraverso Israele e se stesso è diventato un bel film-documentario, “Il cuore di Jenin”, che è la testimonianza anche dell’incontro con le famiglie israeliane. Il padre ebreo ortodosso di Menuha, che da Ahmed ha avuto un rene, dice: “Avrei preferito un donatore ebreo”, e appare incapace di riconciliazione. Ma i rapporti si evolvono e alla fine, almeno, c’è il ringraziamento per il dono. Il film finisce con un’immagine felice di Menuha in altalena: è lei il messaggio di speranza. Lei, le persone, hanno il potere di cambiare le cose.
Restando nel campo palestinese, è importantissimo il processo di riconoscimento pubblico degli insegnamenti universali della Shoah. Il 27 gennaio 2009, Giorno internazionale della Memoria, un piccolo Museo dell’Olocausto è nato a Naalin, uno dei villaggi palestinesi simbolo della lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Si tratta di una mostra di fotografie sull’Olocausto con didascalie in lingua araba, messe a disposizione dalla direzione del memoriale Yad Vashem di Gerusalemme. Accanto ci sono immagini della lotta della gente di Naalin contro le confische delle terre e il Muro. “Non abbiamo voluto mettere sullo stesso piano l’occupazione israeliana e la Shoah -ha spiegato uno dei promotori del progetto, Hassan Musa- ma esprimere la nostra condanna di qualsiasi forma di brutale aggressione all’essere umano”. Israel News descrisse l’evento così: le vittime dell’occupazione hanno voluto “identificarsi con il loro occupante, e capirlo ulteriormente”. Ognuno, ecco la lezione di Naalin, deve conoscere, comprendere e condividere le sofferenze dell’altro. I palestinesi non devono negare la tragedia degli ebrei ma concepirla come una lezione universale. Gli ebrei devono capire che va rispettato non solo il loro vincolo con la patria ma anche quello che i palestinesi hanno con la loro, come lo hanno capito Yehoshua e Oz con le parole che ho ricordato.
Su questo fronte troviamo anche l’altro grande scrittore israeliano, David Grossman: “Solo conoscendo l’altro non possiamo più rinnegarlo o fare come se non esistessero lui, la sua storia, la sua sofferenza. E saremo anche più indulgenti verso i suoi errori”. E’ la scelta, scrive Grossman, di vedere le cose “con gli occhi del nemico”. E di “mantenere vivi i rapporti di base tra israeliani e palestinesi”, di “continuare a lavorare nelle rispettive società, come due gruppi di minatori che scavano sotto una collina e sperano di incontrarsi”. Ecco perché è importante, aggiungo, sostenere, in Italia, ebrei e palestinesi che lavorano per la pace e la riconciliazione, fare incontrare tra loro amministratori locali e rappresentanti della società civile dei due popoli.
Certo, tutto questo è fondamentale. Ma -ecco un altro ragionamento su cui vorrei riflettere- deve combinarsi con un ruolo più attivo della comunità internazionale per l’obbiettivo “due popoli due Stati”. Oggi un processo di pace tra israeliani e palestinesi non c’è. L’idea di un negoziato concreto non fa passi in avanti. Lo stallo ha radici che risalgono agli ultimi vent’anni. La debolezza di Arafat lo portò a fare sbagli: schierarsi con Saddam Hussein nella prima guerra del Golfo, non combattere a sufficienza i gruppi estremisti e terroristi, accettare di firmare gli accordi con Yatzick Rabin senza imporre il blocco totale delle colonie ebraiche nel cuore dei territori palestinesi. Rabin fu poi assassinato da un fondamentalista ebreo, figlio di quelle forze che oggi condizionano il premier israeliano Netanyahu nello scontro sulle colonie. Israele sbagliò quando l’allora premier Ariel Sharon si ritirò da Gaza ignorando totalmente il leader dell’Anp Abu Mazen: lo delegittimò e diede forza ad Hamas, che anche per questo vinse le elezioni del 2006. Gli ultimi suoi drammatici errori sono stati la guerra di Gaza  e la strage sulla Mavi Marmara, e la prosecuzione della colonizzazione. Gli Stati Uniti di Bill Clinton e George W. Bush sbagliarono a non capire l’importanza decisiva della crescita degli insediamenti e a non esercitare pressioni serie su Israele; lo stesso errore che non voleva commettere ma che sta commettendo Barack Obama.
In Cisgiordania, infatti, non c’è solo il Muro, con i connessi posti di blocco, a rendere difficilissima la vita dei palestinesi. C’è soprattutto la crescita degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori palestinesi, che anche per questo vengono definiti dall’Onu “occupati”. La colonizzazione ebraica è stata studiata da Rubi Nathanson: è di 17,5 miliardi di dollari il valore attuale dell’insieme di case private, edifici pubblici, stabilimenti che si trovano nelle colonie in Cisgiordania, senza tenere conto di Gerusalemme Est, la parte araba. In Cisgiordania i coloni sono 300.000, più 200.000 a Gerusalemme Est. Questi ultimi vivono non solo nei rioni ebraici costruiti dopo la guerra del 1967: ora si intende favorire il loro insediamento anche all’interno dei quartieri palestinesi. Da Betlemme si vedeva, fino a pochi anni fa, una collina verde, accanto a Gerusalemme: ora è interamente cementificata dalle case dei coloni. E’ la “ebraicizzazione” di Gerusalemme, che è da millenni la città simbolo della propria storia e identità non solo per gli ebrei ma anche per i palestinesi. Dovunque vada i palestinesi mi ripetono, ossessivamente, “questi sono nuovi insediamenti”. Cresciuti, durante il governo di Ehud Olmert, che pure trattava con Abu Mazen, del 25%. Come si può negoziare ancora di fronte a tutto questo? La decisione del governo di Netanyahu di sviluppare gli insediamenti a Gerusalemme Est impedisce la soluzione del dramma: Gerusalemme simboleggia la dimensione profonda del conflitto israelo-palestinese, che prima ho cercato di spiegare. Senza una soluzione per Gerusalemme, il negoziato muore. Gerusalemme non può non essere, nella prospettiva dei due Stati, la capitale di entrambi. Purtroppo Barack Obama, su questo punto essenziale, ha prima fatto pressione su Netanyahu ma poi ha dovuto cedergli.
Che fare allora? Intanto dobbiamo chiarirci sull’obbiettivo. Se per ipotesi mettessimo da parte la soluzione dei due Stati, resterebbero sul tappeto due alternative: la creazione di un unico stato binazionale oppure il mantenimento dello status quo. La prima opzione non è fattibile, la seconda è inaccettabile. Il grande Stato di Israele non è fattibile innanzitutto per Israele stesso perché, per motivi demografici, gli ebrei non saranno più maggioranza, e a quel punto dovranno necessariamente decidere se continuare a essere una democrazia e non essere uno Stato ebraico, oppure se continuare ad essere uno Stato ebraico e non essere più una democrazia, ma un regime di apartheid. E’ il tema della lettera che 3560 ebrei dei diversi Paesi d’Europa, spesso considerati strenui difensori di Israele, hanno presentato nei mesi scorsi al Parlamento europeo. La seconda ipotesi ormai non è solo inaccettabile, ma anch’essa infattibile. In Israele si insinuava ogni giorno di più questa idea: “una vera pace con i palestinesi non ci sarà mai, il Muro e la forza militare bastano per evitare altre Intifade”. Ma le “nuove rivoluzioni” in Nord Africa, e soprattutto quella in Egitto, hanno rappresentato per Israele un brusco risveglio. Gli israeliani si stanno rendendo conto che in un anno hanno perso i due soli appoggi che avevano nella regione: la Turchia di Erdogan, che si è ribellata alla strage alla Navi Marmara, e l’Egitto di Mubarack. C’è materia da riflettere, in Israele, sui danni causati dai 44 anni di occupazione della Palestina e dalla politica della conservazione dello status quo. Con le incognite della situazione in Siria e anche in Giordania non c’è frontiera che possa ritenersi sicura. Si deve quindi tornare all’unica soluzione possibile, quella dei due Stati: è l’interesse di tutti, anche di Israele.
C’è bisogno, però, di cercare un nuovo approccio. Senza il negoziato, dice l’Anp, chiederemo in autunno all’Assemblea dell’Onu, che lo sancirebbe a grande maggioranza, il riconoscimento di un nuovo Stato palestinese basato sui confini precedenti la guerra del 1967. Sarebbe uno “tsunami politico e legale”, dicono in Israele. Per evitarlo c’è una sola alternativa: che Obama, come gli sollecitano molti Governi europei, convinca Netanyahu a rivedere la politica degli insediamenti e ad affrontare tutte le questioni del negoziato, compresa Gerusalemme. Il nodo, per Israele, è capire che colonizzazione e pace sono inconciliabili. Il tempo non lavora per Israele: restare fermi mentre intorno tutto cambia comporta un inevitabile logoramento. Anche gli Usa, non a caso, si stanno interrogando, perché il rapporto privilegiato con Israele si è sempre basato sul fatto che si tratta dell’unica democrazia della regione. Ma se Israele perdesse questa sua unicità perché altri Paesi mediorientali diventassero democratici? Allora gli Usa non sarebbero più mediatori parziali. L’alleanza storica con Israele rimarrebbe, ma rimodulata: gli Usa potrebbero avanzare una loro proposta di pace, concordata con l’Europa, la Russia e la Cina, che  tutte le parti dovrebbero accettare, o respingere con conseguenze clamorose.
Riconciliazione tra i due popoli e nuovo ruolo della comunità internazionale sono dunque le due parole chiave per uscire da un drammatico impasse e superare il conflitto israelo-palestinese. Ma al fondo di questo conflitto ve ne sono altri due, interni alle parti in causa, che se non fossero affrontati e superati impedirebbero la soluzione del conflitto tra le due parti. Mi soffermerò, ora, su di essi: sul conflitto tra gli israeliani e sul conflitto tra i palestinesi.
Come suggerimento iniziale a un ragionamento sul conflitto tra gli israeliani vale ciò che Grossman ha detto qualche anno fa in una cerimonia sulla Shoah davanti all’intero corpo diplomatico accreditato in Israele: “Se volete veramente servire in un ruolo utile, qui, in quest’area, e aiutare Israele a risolvere il conflitto con i suoi vicini, dovete stare attenti non solo come diplomatici ma quasi come psicologi a tutte le ombre e le sfumature e le brezze che passano nell’anima israeliana”. Noi dobbiamo capire non solo la paura delle bombe e dei razzi che pervade gli israeliani ma anche quella che lo stesso Grossman definisce “l’ansia ebraica”, l’esperienza della persecuzione, il passato di vittime, il senso di solitudine che è profondamente inciso nella psiche degli ebrei. E tuttavia solo la pace potrà dare sicurezza ad Israele. Non sono serviti a nulla 44 anni di interventi armati. Il futuro di Israele, come ha detto l’ex Presidente del Parlamento Avraham Burg, “non è quello di portavoce dei morti della Shoah”, è nella compenetrazione con l’Oriente, nella relazione con le altre vittime di questa terra. Non è una scelta facile: presuppone che Israele si guardi dentro, sottoponendo ad autoanalisi anche le sofferenze indicibili. La classe dirigente, nella sua grande maggioranza, non ha scelto questa strada. I leader di Israele o sono dei praticoni corrotti, come il precedente, Olmert, costretto alle dimissioni per corruzione edilizia, o sono dei politici di destra sotto il ricatto dei coloni e dei religiosi estremisti, come Netanyahu. E nella società civile, sostiene Yehoshua, malgrado la maggior parte dei cittadini abbia accettato il principio dell’accordo di pace, ”regna un senso di paralisi, di alienazione politica, di indifferenza e di fatalismo”. E’ questo il terreno di cultura, continua lo scrittore, per “la diffusione di nuovi, sconosciuti e gravi fenomeni di sciovinismo nazionalista e di allarmante estremismo religioso”. Fino a pretendere dichiarazioni di fedeltà alla patria ebraica per ottenere la cittadinanza; o a introdurre norme come la separazione tra uomini e donne in alcune linee del trasporto urbano di Gerusalemme. In alcuni quartieri gli ultrà ortodossi hanno proibito ai loro seguaci di affittare appartamenti agli arabi. Il Presidente della Repubblica Shimon Peres ha accusato i rabbini estremisti di razzismo e ha parlato di “una crisi morale di fondo, legata all’essenza stessa del Paese”. Non a caso: nel 1948 David Ben Gurion, il fondatore di Israele, riconosceva “completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Oggi si rivolterebbe nella tomba. L’impianto stesso del sionismo viene snaturato da un’ossessione identitaria che tenta inutilmente di contrastare le tendenze demografiche. E poi cresce la corruzione: la cultura emergenziale del regime di occupazione è la base su cui c’è chi tende a mettere tra parentesi ogni cosa, compresi lo Stato di diritto e la legalità. Tutto questo accade mentre la sinistra israeliana, così strettamente intrecciata al sionismo delle origini, è sempre più smarrita, litigiosa e minoritaria. Un altro Israele tuttavia esiste e tiene i “fuochi accesi”. Basta andare ogni venerdì pomeriggio in una piazzetta polverosa del quartiere arabo di Sheik Jarrah a Gerusalemme: centinaia di ebrei e di palestinesi (questi ultimi pochi, perché a loro non è consentito protestare, pena la perdita del permesso di residenza) si raccolgono all’imbrunire per manifestare contro lo sfratto delle famigli palestinesi costrette a lasciar spazio agli insediamenti israeliani. E’ una protesta che svolge un ruolo essenziale, perché dimostra che, oltre alla “società incivile”, esiste ancora in Israele la “società civile”.
Fino a pochi mesi fa avrei descritto un quadro altrettanto pessimista della classe dirigente palestinese. Se oggi lo è un po’ di meno, è perché l’Anp, che governa in Cisgiordania, ha trovato un’intesa con Hamas, che governa a Gaza. Il declino di Fatah, il partito di Arafat, è un enorme problema, perché in Palestina serve un forte partito laico e democratico. L’intesa rafforza Fatah, e pone auspicabilmente fine  alla “guerra nella guerra”, quella che ha visto l’uccisione in questi anni di centinaia di palestinesi critici verso Hamas. Fatah non è solo corruzione: in Cisgiordania ho visto dirigenti lontani dal popolo, ma anche tanti dirigenti vicini al popolo e alle sue sofferenze. Anche Hamas è una realtà complessa, non riducibile a una pedina dell’Iran: ha un’ala fondamentalista e militare, ma anche componenti più moderate e pragmatiche. Dall’intesa potrebbero risultare la sconfitta dell’estremismo di Hamas e la nascita di una nuova leadership democratica palestinese, fondata innanzitutto sulla “young generation” di Fatah. E tuttavia sono in atto tendenze contrarie profonde, connesse con quelle che abbiamo visto avanzare in Israele. Sari Nusserbeh, intellettuale, membro di una famiglia storica dell’aristocrazia palestinese, le descrive così: “Il confronto politico con quello che si sta caratterizzando come uno Stato religioso, lo Stato degli ebrei, contribuisce a rendere la società palestinese altrettanto religiosa. La minaccia religiosa sta crescendo, da una parte e dall’altra”. E’ in questo clima che si inseriscono gruppi come quelli che hanno ucciso Vittorio Arrigoni a Gaza. Ma anche i gruppi integralisti che a Jenin hanno attaccato, con alcuni attentati, le “devianze artistiche” del Teatro della Libertà, l’unica struttura culturale del campo profughi, fino ad uccidere il suo direttore, Juliano Mer-Khamis. Ci sono, però, anche spinte diverse: ad esse hanno dato vita quei giovani, idealmente collegati ai protagonisti delle “nuove rivoluzioni” arabe, che hanno manifestato, sia a Gaza che in Cisgiordania, per l’unità dei palestinesi. L’intesa tra Anp e Hamas trova anche in questo movimento le sue radici.
I conflitti tra israeliani e tra palestinesi, quindi, rimangono. Primi segnali positivi provengono dalla Palestina, in sintonia con la nuova vitalità del mondo arabo. Ora devono consolidarsi e incontrarsi con forze di segno convergente provenienti da Israele: obbiettivo più difficile, dato il processo di esaltazione nazionalistica in atto in quel Paese. Ma Israele ha un arroccamento che manca di realismo. Non vuole prendere atto dei cambiamenti in corso nel mondo arabo, compresa la ricomposizione tra palestinesi. Questa, però, non è una politica che guarda al futuro. E’ l’autocondanna a un immobilismo che non regge più. Il lavoro di riconciliazione tra i due popoli e l’impegno della comunità internazionale per i due Stati hanno davanti nuove opportunità. “The times they are a- changin’”, diceva quasi cinquant’anni fa una bellissima canzone che parlava una nuova lingua. Era una travolgente letteratura per un mondo nuovo. Forse anche oggi i tempi sono maturi per le idee ambiziose.

Milano, 21 giugno 2011

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